Pagina:Ferrero - Angelica, 1937.djvu/20

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xvi introduzione

Dante, nella speranza di poter restare in Italia come critico d’arte, ne aveva cominciata una su Leonardo che doveva consegnare all’Università in ottobre. D’altro lato era impossibile scrivere un dramma come «Angelica» sotto un governo tirannico, spiati come eravamo e sotto la minaccia continua di perquisizioni e di confino. Prima di lasciare l’Ulivello per Parigi, aveva accennato a un dramma che aveva ideato, in parte fantastico, in parte reale, nel quale avrebbe introdotte le maschere della commedia italiana modernizzate. Nelle prime lettere da Parigi ci fece qualche vaga allusione al dramma che stava scrivendo «per sfogare», questa la frase che adoperò — me ne ricordo benissimo — il dolore della compressione e dell’esilio. Sfogato il dolore, scritto il dramma, lo lesse a qualche amico e non ci pensò più. Doveva raccogliere le sue forze per la nuova prova che lo attendeva.

Parigi, Parigi, città mito nella immaginazione dei lontani! — Fortunato Leo! Ecco, ora vive a Parigi! — dicevano i suoi amici italiani. Sinceramente, lo credevano tutti l’uomo più felice del mondo. Ma i genitori tremavano per lui. Parigi aveva accolto con generosa cordialità il giovane esiliato. Gentile, pieno di humour, colto, avido di affetti, seppe farsi ben volere anche a Parigi, come in tutti i luoghi dove era passato.

Senonchè Leo non era andato a Parigi per cercarvi un festoso rifugio; ci era andato per lavorare e creare. Ma mutar lingua e patria a ventisei anni, che cimento per uno scrittore, in un’epoca in cui le passioni nazionali si abbarbicano come liane a tutte le attività dello spirito! Leo aveva potuto decidersi a valicare le Alpi spirituali che separano la Francia dall’Italia, più aspre ed erte che le