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temuto e sofferto lunghi anni, ricordando ancora le favole atroci, che si susurravano nei giardini dei nobili morituri, quando il silenzio regnava, e non vinta era la paura dei delatori, Tacito volle, stabilita finalmente con Traiano la pace e la sicurezza, prendersi una imperitura vendetta, per se e per tutta la nobiltà a cui apparteneva; volle dirsi « ho patito, ma questi patimenti non saranno inutili ». Hanno fatto di lui un repubblicano, ma non è vero nel senso moderno della parola. Per quanto abbia spesso visto la tirannia dove non c’era, egli non ha mai pensato che una rivoluzione contro il regime imperiale fosse possibile e desiderabile nè che fosse necessaria per ricostruire la repubblica, che ai suoi occhi era stata maltrattata ma non distrutta. Egli non è il censore dell’impero, ma di alcuni imperatori, di molti vizi, dei costumi contemporanei, della società, come egli la vedeva, nella sua crescente depravazione, del senato, che perdeva ogni giorno un po’ della sua autorità, benché ne avesse più di quanto sembrava. Tacito è un moralista, che osserva la depravazione dei suoi tempi e ne soffre; ma che invece di curarla, come Livio, proponendo loro il modello ideale di una età più antica, mitologicamente austera, semplice e ricca delle più eccelse virtù, vuol curare quella cancrena con la pietra infernale dell’indignazione. La storia è per lui una specie di tribunale del vizio e della colpa, innanzi al quale egli, giustiziere implacabile, cita i suoi tempi in forza del codice non scritto della propria coscienza. Egli scrive la storia perchè « po-