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Pagina:Ferrero - Meditazioni sull'Italia, 1939.djvu/226

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EGIDIO REALE

Athenee di Ginevra — Nov. 1933.

Quando, chiamato a parlare di Leo Ferrero, io cercavo nei giorni scorsi di rievocare a me stesso l’immagine sua, l’immagine della sua fanciullezza e della sua giovinezza, nei ricordi che avevo di Lui, nelle parole e nei silenzi — ugualmente eloquenti — dei suoi cari, nei suoi versi e nelle sue prose, nelle lettere commoventi e commosse di quanti, avendolo conosciuto, erano stati spinti ad ammirarlo ed amarlo, un sentimento di un tratto mi vinse ed avvinse, un sentimento che era cosí prepotente e cosí forte e cosí penoso che mai più mi è stato possibile sottrarmi ad esso: il sentimento della tragicità di una vita cosí luminosa di sole e di speranze e cosí solcata di tempeste e di abbandoni, cosí piena di promesse e cosí presto troncata dalla morte, respiro cosí vasto in un corso cosí breve. E questa mi apparve essere la nota fondamentale, la caratteristica saliente, della sua personalità intellettuale ed umana: il contrasto drammatico tra la gioia del vivere ed il presentimento della morte, tra la volontà che si strugge vanamente ricercando ed inseguendo una felicità che raggiungere non è possibile, tra il prepotente bisogno di amare e di cantare tutte le cose belle, di vivere in un mondo ideale fatto di sogni e di chimere e la sensazione tormentosa e la visione di quel che la vita è nella sua realtà; tra l’aspirazione incessante a segnare con la sua opera una traccia che non sparisca e il timore di non poter tradurre negli scritti le creature della sua mente, di morire, come egli canterà ancora quasi adolescente: «d’opre incompiute ignoto autore», per «dormire a fianco a fianco coi suoi sogni sepolti ore dopo ore».

La sua prima giovinezza è felice; gli sono viatico