Pagina:Folengo, Teofilo – Opere italiane, Vol. III, 1914 – BEIC 1822407.djvu/17

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Sappiate poi che fino alla dimane
vegghiar dobbiamo in questa sacra notte,
come fu vecchia usanza e pur rimane. —
Parmi che le piú gravi teste e dotte
di questi padri ebrei nel tempo antico
si furo un giorno insieme ricondotte.
D’Abram, Isaac, Iacob e del pudico
loseppe ragionando, alfin si venne
agli atti del gran Mòse, di Dio amico:
come d’un popol rio sempr’ei sostenne
l’empia durezza e con fiammati prieghi
al meritato strazio lor sovvenne.
Ma non fia mai che facilmente pieghi
l’indurato pensier chi mal s’avvezza,
né vuol d’un laccio tal eh’alcun lo sleghi.
Però chi Dio superbamente sprezza
sprezzato e risospinto vien da Lui,
e tratto al fondo il collo vi si spezza.
Or un tra loro agli altri disse: — Nui,
popol eletto, non piú eletti siamo,
stretti per boria nostra in pugno altrui!
Giustizia vuol che noi, del fido Abramo
perfidi figli, a Dio rubelli, ingrati
di mal in peggio sempre piú n’andiamo:
servi d’Egitto prima siamo stati,
di Babilonia poi molt’anni e molti;
or piú che mai ci tien Roma legati.
Pur hanno ad esser liberati e sciolti
non piú gli ebrei che gli universi vivi,
or vivi in carne, in spirito sepolti.
Dicono i santi oracoli che privi
del ciel morimo ed all’inferno vassi
da che il prim’uom di morte aperse i rivi.
Però giú d’alto in questi luoghi bassi
vien esso Dio, non angel manda od uomo;
e muover fia veduto in carne i passi.