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CANTO XVIII

Discorso della grazia e libero arbitrio, della fede e delle opere,
dell’eresie e mala vita de’ pastori.
La fin del grave canto, che qui sopre
col bel Ioseppe il padre suo conchiude,
dove nomossi «arbitrio, grazia ed opre»,
non ben allor compresi, essendo rude
5nel mistier sacro e negli arcani sensi,
ond’ha bisogno ch’altri in spirto sude.
Ma, poi che in me da Dio fur entro accensi
per bocca di Palermo gli agghiacciati
pensieri miei, so dir quanto conviensi.
io So dirlo e me’ pensar; poiché voltati
ho piu volumi e trattone conserve
d’alte sentenze e detti non enfiati.
So che ad ognor la grazia bolle e ferve
in sciolto arbitrio, ina, gelato il quale,
15mancando lei, va cattivato e serve.
So che lo spirto al ben, la carne al male
tránno il consenso, e gara tra lor nasce,
gara senza vantaggio e in armi eguale.
So non volere il Re del ciel si lasce
20uomo tentare alle sue forze sovre,
ché studio n’ha fin dalle prime fasce.
So che al perdente, acciò se ne ricovre,
la via dimostra, i modi e l’arte come
spiri all’onor di cosi nobil’ovre.
25So che per me, pur sotto il forte nome
del nostro invitto capitano Cristo,
domar le voglie posso e impor le some.
So che per me, se grazia è in me, resisto
agli avversari affetti, e, s’opro bene,
30lei sola riconosco e il cielo acquisto.