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Pagina:Folengo - Opere italiane, vol. 1, 1911 - BEIC 1820955.djvu/240

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234 caos del triperuno


trabocchi, lévati presto, chiama dal ciel aiuto, non ti addossar in terra, non vi far le radici. L’abito solo è quella peste, quel morbo se non per grandissima misericordia d’Iddio sanabile, quell’inferno d’ignoranzia, quel laberinto d’errori, ove dubito non sii finalmente per tua inavvertenzia dal sfrenato desio tirato.

TRIPERUNO

Finitte appena l’angelo divino questo sermone, che quattro de gli piú vaghi angioletti cantando cosí dolcemente incomenciaro:

Un aspro cuor, un’empia e cruda voglia,
una durezza, impresa giá molt’anni,
se altrui depor contende, non s’affanni
sperar ch’altri ch’Iddio mai vi ’l distoglia.

E s’uomo stesso il fa, dite che spoglia
non riportâr tirannide tiranni
di questa mai piú bella e che piú appanni
ogn’altra gloria, ch’uomo al mondo invoglia.

Ma il ciel di stelle e d’acque il mar fia manco, [«Difficile est resistere consuetudini, quae assimilatur naturae». Arist.]
qualor accaschi in uomo tanta forza,
ch’ei vecchio stile da sé levi unquanco.

Però convien ch’al bon Iesú si torza,
mercé attendendo, ed anco il prieghi ed anco,
fin che qual serpe lásciavi la scorza.

TRIPERUNO

V enuti al fine de l’orribil metro
E ran li cantator empirei, quando
R uppesi un sòno fuor de la capanna,
U n sòno di percosse e battiture
M eschiate con minacce ed altri gridi.