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262 caos del triperuno


LA MATOTTA

TRIPERUNO


Stavami un giorno fra li altri col mio maestro Merlino su la ripa d’un rapidissimo fiume di latte, lo quale, impetuosamente le fragil sponde di pane fresco diroccando, un suavissimo talento di mangiar suppe di cotal mistura porgevaci. Ma io talmente trovavami esser allora di frittelle compiuto e satollo, che (in mia laude vo’ dirlo!) col dito per la gola quelle toccare averei potuto: laonde mi fu mistero la cintura, se scoppiare non vi voleva, rallentarmi su’ fianchi. [«Non immerito medici fidi cibo et crapula distensos scaeva et gravia somniare autumant». Apul.] Vero è che ’l mio precettore, assai di me non pur meglior poeta, ma bevitore, mangiatore e dormitore, tutto che di quelle istesse frittelle dovea ripieno essere, niente di meno erasi pur anco apposto agiatamente a l’impresa di espugnare un capacissimo vaso di lasagne, non giá di pasta per zappatori usata, ma di pellicole de grassi capponi, li quali de l’istesso colore, c’hanno la testa li giudei, erano. E mentre io, con seco favoleggiando, mi trastullo in veder un porco col griffo nel caldaio di broda li guazzare, ed egli per non perder il tempo mi ascolta solo e mai nulla risponde, ecco vi sovraggiunse un damigello, d’aspetto, per quel che mi ne parea, molto gentile e saputo, lo quale una sua cetra soavemente ricercando, cosí accomodatosi con la voce al sòno e appoggiatosi ad un lauro a lui vicino, disse: