Pagina:Folengo - Opere italiane, vol. 1, 1911 - BEIC 1820955.djvu/299

Da Wikisource.

selva seconda 293


S u quelle parti oscene che ciascuno,
Q uantunque sia piccino, coprir sòle.
— V edrai — parla Limerno — quant’è meglio
E sser di miei che di quel sporco veglio!

R ecativi ’l in braccio, o belle ninfe,
E d a la dea portandolo direte:
— M adonna, dentro le muschiate linfe
O fferto s’è costui nel nostro rete:
T egnamolo qui nosco, se ’l vi pare,
I donio testimon, quando che v’abbia
S empre a lodar ne l’amorosa rabbia. —

— O — dissi allor, — o di vaghezza fiore,
C hi mi porge la stola ond’io mi copra?
— C uor mio — rispose — quivi non s’adopra
V estir alcuno dove regna Amore, [«Vanum cor vanitatis notitiam quaerit corpori». Bern.]
L o qual ignudo va co’ soi seguaci:
T aci lá dunque, pazzarello, taci! —
A llor fui ricondutto a grand’onore
T ra gioveni leggiadri e damigelle,
A vanti una piú bella de le belle.

V enere fu costei, la qual nel seggio
R egina di Matotta il settro tiene.
— B enedetto sia ’l cuore di chi viene
— I ncomenciossi allor cantar intorno —
S otto Amatonta al dolce lei soggiorno! —

L aúti, cetre, lire ed organetti
I van toccando parte, parte al sòno
T enean le voci giunte, ahi quanto vaghe.
I n quel medesmo tempo, a vinti a trenta,
B asciandosi l’un l’altro insieme stretti [«Luxuriae nimium libera facta via est». Prop.]
V anno danzando intorno, e questi sono
S inceri giovenetti e donne maghe.