Pagina:Folengo - Opere italiane, vol. 1, 1911 - BEIC 1820955.djvu/71

Da Wikisource.
CAPITOLO QUARTO


1
Quel stridulo cantar ch’una cicada
move quando su ’l palo il cul dimena,
fa l’arpa mia, ch’assai poco m’aggrada,
mentre m’aggraffio ’l sangue d’ogni vena;
e pur convien tornarmi su la strada
e farvi udir un’altra mia sirena;
ché un carro sona, il qual mal onto e tardo
si duole che ’l patron gli mangia il lardo.
2
Ma se talor cantando ella scapuzza,
candido mio lettor, qual tu ti sei,
perché dolerti? anche a’ signori muzza
qualche correggia in mezzo a quattro o sei.
S’io mangio male, il fiato poi mi puzza.
— Mangiate quae apponuntur, fratres mei, —
chiama ’l Vangelo; benché tal precetto
servato vien da molti al suo dispetto.
3
Stette Milone solo nel steccato
come talvolta sòl far il leone,
che, fra lo stolo d’altre bestie entrato,
o fa o finge far del compagnone;
ma quelle in fuga vòlte gli dan lato,
di qua di lá cercando alcun macchione;
ed egli solo resta in un istante,
quelle mirando a sé scampar davante.

T. Folengo, Opere italiane. 5