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96 ii - ultime lettere di iacopo ortis


LETTERA XI

28 ottobre.

Tre giorni ancora, e Odoardo non sará piú seco noi. Ma vedi raggiro di parole nella tua lettera di ieri, per farmi pur confessare la compiacenza secreta ch’io ne devo sentire! Questa volta ser Lorenzo ha sospettato assai male: non è giá per questo... Ma la tua congettura non è vera... non è vera.

Ieri sul far della sera siamo usciti tutti e tre a passeggiare. Teresa e Odoardo parlarono sempre fra di loro, ed io, quantunque non proferissero con voce sommessa, me ne andava fischiando or innanzi, or di fianco, or soffermandomi ad osservare una pianta, ora lanciando un sasso, facendo bersaglio di qualche tronco. Come fummo a casa, Teresa mi pregava di perdonarle l’inciviltá ch’essi aveano commesso, occupando tutta la conversazione de’ loro piccoli affari: — Voi sapete — soggiunse — che non v’ha si dolce consolazione nell’abbandono de’ nostri amici quanto la certezza che noi non ci siamo dimenticato veruna cosa a dir loro, e che tutta l’anima nostra è trasfusa e depositata nel loro seno. — Egregia creatura!

Eppure me ne dispiace; spesso rido di me, perché propriamente questo mio cuore non può sofferire un momento, un solo momento di calma. Purch’ei sia sempre agitato, per lui non rileva se i venti gli spirano avversi o propizi. Ove gli manchi il piacere, ricorre tosto al dolore. Questa mattina venne Odoardo a restituirmi un archibugio ch’io gli aveva prestato; io non ho potuto vederlo partire senza gettarmigli al collo, tuttoché avessi dovuto veramente imitare la sua placida indifferenza, mentre quelli non erano gli estremi congedi. Non so di qual nome voi altri saggi chiamate chi troppo presto ubbidisce al proprio cuore, perch’ei certo non è un eroe: ma è forse vile per questo? Coloro, che trattano di deboli gli uomini appassionati, somigliano quel medico che chiamava «pazzo» un malato non per altro