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98 ii - ultime lettere di iacopo ortis


io sotto una pergola: scavezzava allegramente i rami ancora verdi, perché di frutta non ce n’erano piú. Appena l’ebbi fra l’ugne, incominciò a gridare: — Misericordia! — Mi confessò che da piú settimane facea quello sciagurato mestiere, perché il fratello dell’ortolano aveva qualche mese addietro rubato un sacco di fave a suo padre. — E tuo padre t’insegna a rubare? — In fede mia, signore, in questo paese fanno tutti così. —

L’ho liberato e, saltando a precipizio fuor d’una siepe, gridava (ecco la societá in miniatura): — Tutti così.

LETTERA XIV

12 novembre.

Ieri, giorno festivo, abbiamo con grande solennitá trapiantati i pini delle prossime collinette sul monticello di sabbia che sorge rimpetto la chiesa. Mio padre pure tentava di fecondare questo sterile monticello; ma i cipressi, ch’egli vi pose, non hanno mai potuto allignare, e i pini sono ancor giovinetti. Assistito io dunque da parecchi lavoratori, ho coronato la sommitá con cinque altissimi pini, ombreggiando inoltre la costa orientale di un folto boschetto, che sará il primo salutato dal sole, quando splendidamente comparirá dalle cime de’ monti. E ieri appunto il sole, piú sereno del solito, riscaldava l’aria irrigidita dalla nebbia del morente autunno. Le villanelle vennero sul mezzogiorno coi loro grembiuli di festa, intrecciando i giuochi e le danze di canzonette e di brindisi. Tale di esse era la sposa novella, tale la figlia, e tal altra l’innamorata di alcuno de’ lavoratori; perché i nostri contadini sogliono, come sai, quando si trapianta, convertire la fatica in piacere, credendo, per antica tradizione de’ loro avi e bisavi, che senza il giubilo de’ bicchieri gli alberi non possano mettere salda radice nella terra straniera.

Io frattanto mi dipingeva nel lontano avvenire un pari giorno di verno, quando, canuto, mi trarrò passo passo sul mio bastoncello a confortarmi ai raggi del sole, sì caro a’ vecchi,