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lettera xxiii 109


era dominato da una perpetua notte profonda. Ed io, rivolgendomi a quella parte di cielo che albeggiando manteneva ancora le tracce del suo splendore: — O sole — diss’io — tutto cangia quaggiú! ma tu giammai, eterna lampa, non ti cangi? mai! Pur verrá di, che Dio ritirerá il suo sguardo da te, e tu ancora cadrai nel vuoto antico del caos; né piú allora le nubi corteggeranno i tuoi raggi cadenti, né piú l’alba inghirlandata di celesti rose verrá, cinta di un tuo raggio, sull’oriente ad annunziar che tu sorgi. Godi intanto della tua carriera. L’uomo solo non gode de’ suoi miseri giorni, e, se talvolta gli è dato di passeggiare pe’ floridi prati d’aprile, dee pur sempre temere l’infocato aere dell’estate e ’l ghiaccio inclemente del verno. —

LETTERA XXIII

22 gennaro.

Così va, caro amico. Stavami al mio focolare, dove alcuni villani de’ contorni s’adunano in cerchio per riscaldarsi, raccontandosi a vicenda le loro fole e le antiche avventure. Non andò guari ch’entrò una fanciulla scalza, assiderata, e, vòltasi modestamente all’ortolano, lo richiese della limosina per la povera vecchia. Mentre ella stava rifocillandosi accanto al foco, egli le preparava un fascio di vite, un altro di quercia e due pani bigi. La villanella prese il suo carico, e salutandoci se ne andò. Anch’io allora, non so perché, me ne usciva e senz’avvedermi la seguitava, calcando, dietro le sue péste, la neve. Ma, giunta a un mucchio di ghiaccio, si fermò alcun poco per disgombrarsi la strada; ed io, raggiungendola: — Andate lontano, buona ragazza?

— Niente piú di mezzo miglio, signore.

— Parmi che i fasci vi aggravino troppo: lasciate che ne porti uno anch’io.

— Per i fasci, tanto, non mi sarebbero di sì gran peso, se potessi sostenermeli su le spalle con tutte due le braccia; ma questi pani m’imbarazzano la mano dritta.