Pagina:Foscolo - Poesie,1856.djvu/32

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Ed una madre, che suoi giorni visse

Sì gran tempo infelici, afflitti e rei,
Deh! una volta rallegra.
Atreo. Alte cagioni
Pensieroso mi fanno: io cinto e avvolto
Sommi da mille ognor: pur sol mi resto.
E se il consiglio mio, se il braccio e ’l petto
Mio non oppongon schermo, o madre, il trono
Vacillerammi.
Ippodamia. Infausto è il regno: e infausto
Più, se temuto è il re. Di schiavi e vili
Tu se’ accerchiato; ognun t’adora, e sorte
T’arride amica. Ma se’ pago? – Tremi,
Diffidi; e a dritto. Traditori, un giorno
Ti porranno le mani entro le chiome;
Strapperanti il diadema, e riporranlo
Ad altri in capo. – Pur... se d’un fratello
L’amor qui fosse... di temer sì grande
Uopo, Atreo, non avresti.
Atreo. E di qual mai
Fratello parli, o donna? Infame stirpe
Fatta è la nostra. Or ciò sol pensa, e taci.
Ippodamia. Tuo sdegno è giusto; e del suo error Tïeste
La pena sconta...
Atreo. Errore!
Ippodamia. Alma bollente,
Giovane etade, e di vendetta brama
A’ delitti strascinano! Rapito
Gli hai regno tu, rapita sposa, e in bando
Cacciato: or questo a mitigar non basta
Delitto forse?
Atreo. Spaventoso, orrendo,
Non più inteso misfatto, avvi ragione
Che mitigar possa giammai?
Ippodamia. Ben alta
Pena portonne, e portane! Rammingo,
Abborrito da’ suoi, da’ rii pensieri
Ognor seguito, ci mena gli