Pagina:Foscolo - Poesie,1856.djvu/55

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Dono è ’l viver de’ sudditi – E mio dono,

Iniquo, era tua vita. Oh! chi mai sfugge
Di re sdegnato all’ira? A Rodi, e a Delfo,
Di là a Micene tu giugnesti, e fosti
Securo sempre, che pietade indegna
Per te parlommi; ed io l’intesi, e troppo
L’intesi forse; nè men pento: scritta
Era vendetta; e giunse il dì; bench’io
Nol desïassi.
Tieste. E i tuoi sicarj in Delfo,
E Pliste il sire di Micene, e ’l tuo
Agacle fido, non tramavan forse
Qui strascinarmi? Chi cacciò superbo
Me da Micene? chi mi spinse in Argo
Con dotti inganni altri, che Atreo?
Atreo. S’addice
Al core tuo tal tracotanza. A Delfo
lo sicarj invïai? Metaco e Pleo
Ivi ne andár, non per mio cenno: incolpa
Te, se Pliste cacciotti; i re medesmi
Non danno asilo a tai delitti: e pena
Agacle avranne, che vulgò menzogna
Onde macchiar mio nome.
Tieste. O come l’arti
Del tiranno possiedi! In cor furore,
Pace nei detti; comandar misfatti,
E punirne il ministro: e vita e fama
Tor, per rapir sostanze: adoprar fraude,
Ove spada non val: pietà con pompa
Mostrar, e bever sangue. Oh! ben t’adatti
Il regal manto! ei ben ti copre! regna,
Chè tiranno sei vero.
Erope. (1)
Al fin: qual avvi
Ragion qui di garrir? Ambo siam rei,
E tuoi gastighi ambo mertiam; ma cessa
D’amareggiar nostre sventure, e omai
Duo miseri sotterra infausti troppo

  1. ad Atreo