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Felice cui tanto donasse un Dio!
D’una sol pianta dir le forze e l’uso
È per me assai, dove scoperta, e come
Strania per tanto mare a noi sia giunta.
30Nell’ampio Ocrano sotto il Cancro ardente
Dove a mezza la notte il Sole a noi
Celasi, quasi ignota avvi a gran tratto
Un’isola che Ispana i scopritori
Disser, ferace in ôr, ma ben più ricca
35Per l’albero che Jaco in sermon patrio
Chiamano. — Liscio egli è; dall’alta cima
Sempre verde chiomata, a grande selva,
Spande di foglie, e piccoletta ed acre
Pende una noce da’ suoi rami in copia.
40N’è dura la materia emula al ferro,
E i tronchi sudan forte ragia al foco.
Tagliati àn color vario; alla corteccia
Verdeggia il lauro pel di fuori, e dentro
À di bosso pallor, fosco è il midollo,
45Fra l’ebano e la noce, e se il vermiglio
Non mancasse, emular l’Iri potrebbe.
Studian le genti a cultivarla assai,
E pianta ell’è, che i colli e i campi aperti
Ovunque veste, nè più santa cosa,
50Nè cara più, àn quelle genti tutte;
Che in quella il Ciel contre la peste pose,
E perpetua, la speme: i grossi rami
Battono forte di corteccia mondi,
O scheggie fan, che immerse in puro fonte
55Beon l’umore, che notte e dì le macera:
Cuoconle poi, nè minor cura àn dessi,
Che l’acqua a caso non infurii, e spanda
La spuma, che soverchia al foco in mezzo.
Ungon di spuma in ver quanto d’immondo
60Resti pel corpo, e l’egre membra strugga.