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Pagina:Francesco Sabatini - Il volgo di Roma - 1890.pdf/42

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36 F. Sabatini


a «gocce di brina che splendono un attimo al sole, e cadono lucendo dai rami»1.

Eppure lo stesso Zanazzo, otto anni or sono, nella prefazione ad un suo libriccino di poesie romanesche,2 parlando dell’immenso amore che egli nutriva per la plebe romana, scriveva: «E questo amore non mi fa velo; sicchè io m’illuda ed esalti il valore del nostro volgo; anzi mi spinge a presentarlo in tutta la sua verità. Esso, certo, manca d’immaginativa, per il che non può renderci una poesia popolare ispirata e simigliante a quella che ci offrono le provincie meridionali».

Veramente il nostro poeta romanesco diede in questa umile prosa un miglior giudizio della poesia popolare romana, che non abbia fatto nella vaporosa e poetica prolusione de’ suoi ritornelli; nella quale più oltre aggiunge queste parole, ch’io qui riferisco, e che confermano il suo convincimento intorno alla lirica romanesca. «Il nostro linguaggio amoroso - egli dice3 - non è cavalleresco e cortese come il toscano, dove si parla di dame, di servente amoroso e di serventese. Ma in compenso è lucido ed espressivo, e risponde al caldo impeto del nostro sangue. Sono infatti pieni di profondo sentimento questi stornelli:


  1. Zanazzo, Aritornelli romaneschi, p. 13.
  2. Id., Quattro bbojerie romanesche, p. v.
  3. Id., Aritornelli, p. 14.