Pagina:Frascherie.djvu/262

Da Wikisource.
262 Delle Frascherie

     Voi, ch’à pescare un cor, reti asciugate,
     Cangiate omai le vostre prede in doni;
     Ch’à voi più recherà glorie divine
     L’argento d’una man, ch’oro d’un crine.

Quì la crudele Arpia, bench’auree masse
     D’Alchimistico crin non caccian fame
     Involto entro una carta a i Numi trasse
     De gli ori suoi lo scardassato stame,
     Mà si legge, ch’irato a l’hor cangiasse
     Giove i suoi crin di Canape in legame,
     Quasi volesse dirle. Hor che le ricche
     Chiome non hai, la fune lor t’impicche.

Chiese Giove elemosina a un Zerbino;
     Mà fè in guadagni il solito progresso,
     Ch’Amor del foco suo sotto il camino;
     Le monete di lui squagliava spesso.
     Ogni servo d’Amor brama il quattrino
     Perche Cupido, e cupido è lo stesso;
     Nè fia stupor, ch’al povero sia crudo,
     Chi nega un Cencio a un cieco Dio, ch’è nudo.

Certo brodo ad un Hoste un giorno chiede
     La lor Dovinità, ch’era già secca,
     Un Piatto unto, mà voto à l’hora diede
     L’Hoste a Mercurio, e disseli. Tò lecca,
     Rise Mercurio, e replicò. Si vede,
     Che l’Hoste in noi d’hostilità non pecca
     Vuol, che netti i suoi piatti un Dio digiuno,
     Perche nettare, e Nettare è tutt’uno.