Pagina:Galiani, Ferdinando – Della moneta, 1915 – BEIC 1825718.djvu/362

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356 appendice


stesso zio, a cui fu obbligato farne la lettura, come solea degli altri nuovi libri, nelle ore del di lui riposo. Fu questa mercede bastante allo sforzo d’una fatica, superiore all’immatura etá, che avea intrapresa, perché gli avvenne soventi volte veder il zio ansiosissimo di conoscer l’autore d’un libro che infinitamente apprezzava e sentirsi domandare se mai potesse egli indovinar chi fosse. Né a tante richieste volle pur Ferdinando Galiani scoprirsi, finché il libro non fosse tutto letto e giudicato. Ha il dolce pensiero ora di credere che il contento che provò il zio, quando se gli scoprí, servisse a trattener per qualche tempo l’effetto in lui d’una grave malattia, che, cominciatagli poco prima con leggieri sintomi di mestizia nell’animo e di stracchezza nelle membra, divenne in capo all’anno un accidente emiplegiaco, dal quale, dopo aver languito fino al luglio del 1753, fu tolto di vita. Perdita grave ed irreparabile per le lettere, delle quali era stato nella sua patria piú illustre che fortunato ristoratore.

Mancò inoltre, come abbiam detto di sopra, al giovane autore l’aiuto de’ libri. Rarissimi erano stati fino a quel tempo gli scrittori di questa nobilissima e quasi nuova scienza del governo economico degli Stati, che poi, con rapidissimo progresso e moto accelerato, ne ha avuti tanti; cosicché, prima di giungere alla maturitá, si è trovata giunta alla corruzione d’un oscuro metafisico gergo in bocca a coloro che la Francia ha voluti chiamar «economisti»: del vaniloquio de’ quali prima pazzamente invogliatasi, e poi straccatasi e svogliatasi presto, com’era naturale, pare ora che, siccome fa delle vesti e delle sue pettinature, ne abbia negletta e cambiata la moda. Ma nel 1749 gli scrittori erano ancora pochissimi, né le opere di tutti erano per la distanza pervenute in Napoli. Di quante gli passarono sotto gli occhi si fece un sacro dovere rammentarle nella prefazione, che mise alla sua opera. La sola necessitá di quel segreto da noi di sopra narrato lo forzò a tacere allora quel che sempre di poi ha confessato, ed oggi per gratitudine si fa pregio di far pubblicare colle stampe, che a lui furono piú d’ogni libro giovevolissimi i discorsi per molti anni intesi di due uomini sapientissimi e profondi in questa scienza come in altre molte, che allora viveano in Napoli ed egli frequentava. Furono questi il marchese Alessandro Rinuccini e l’abate Bartolommeo Intieri, ambedue toscani: l’uno di nobilissima stirpe l’altro di oscuri natali, ma resi eguali e quasi fratelli dall’amicizia, dalla sapienza, dalla virtú. Dettero essi a questa cittá, dove