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zione inutile, giacchè essi nulla avrebbero fatto a fianco dell’esercito sardo invadente) e forse anche per non contaminarli al contatto degli elementi poco pari dei Mille.

Era dunque verso la fine d’agosto quando pronto l’Esercito Meridionale sulla sponda sicula dello stretto di Messina, si disponeva a traversarlo.

La vigilanza dei legni borbonici a vapore era immensa: le loro batterie sulla costa calabra, ben guernite di cannoni e d’uomini, protette da varii corpi di truppe sparsi nelle campagne circostanti.

Una quantità di piccole barche, raccolte nei diversi porti della Sicilia, erano state dirette a Punta di Faro, per effettuare il passaggio. — Vi furono alcuni tentativi infruttuosi. — In uno però, condotto dai valorosi Missori, Nullo, Musolino, Mario ed altri prodi compagni, si assaltò uno dei forti principali della costa suddetta, e senza il timore d’una guida che s’impaurì alle prime fucilate, i nostri s’impadronivano del forte, e con questo si sarebbe agevolato grandemente il passaggio dell’esercito.

La fortuna però doveva continuare a proteggere la giusta impresa, ed al ritorno del Washington dagli Aranci, il Dittatore s’avviò verso Taormina, ove il generale Sirtori aveva diretto due piroscafi per il Mezzogiorno della Sicilia — il Torino ed il Franklin. — Imbarcossi col generale Bixio la di lui Divisione e felicemente giunsero a Melito sulla costa meridionale della Calabria.