Pagina:Garibaldi - I Mille.djvu/380

Da Wikisource.
356 i mille


stesso l’uomo, e sentì quanta somma di tesoro avea perduto. Ogni sentimento allora di dovere di setta, di disprezzo, d’odio, sparì davanti al nobile senso dell’amore che avevano meritato le sventurate sue vittime.

E fu amore selvaggio, il suo, amore, per cui egli avrebbe dato fuoco, non solo alla mina del ponte, ma alla mina dell’orbe s’egli ne avesse avuta la miccia alla mano! Amore! che, come abbiamo veduto, lo fece precipitare sotto la lama omicida del guerriero alpigiano, e da capo supremo d’un esercito, ridotto a vile prigioniero ferito d’una masnada ch’egli detestava più della morte!

Condotto nel centro della colonna in marcia su Tora, e trascuratamente vigilato dai militi stanchi, egli tentò la fuga, facilitato dall’oscurità della notte, e pervenne ad uscire dalla colonna, arrampicandosi a destra verso le falde dei monti.

Ma fatalità, o giustizia! Una palla dei cacciatori borbonici, forse l’ultima degli ultimi tiri sparati sul fianco destro dei nostri, lo colpì sul naso, fra i due occhi, quasi all’istesso punto, ove aveva ricevuto la prima ferita; ambe ferite dolorose, ma non mortali per disgrazia sua, che quasi lo acciecarono completamente. Egli cadde, ma rialzossi subito, e cogli occhi appannati dal sangue e dalle tenebre, cercando scampo colla fuga, precipitassi nuovamente nelle fila de’ suoi nemici, ove, riconosciuto, lo legarono colle mani