Pagina:Gazzetta Musicale di Milano, 1843.djvu/28

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Rubini, nè la Lalande,nè Tamburini che inspirarono, per esempio, la stupenda canzone dei pirati che ripetesi dietro le scene nellallo primo; e questo era forse il tratto O che più gradiva nell’Opera, in quanto a musica; nè può asserirsi che gli artisti siano stati le frecce d’Abari che sollevaron Bellini al tempio dell’immortalità, se il Pirata piacque pur sempre anche con virtuosi che troppo di sovente avevano parchissima abilità. Oltracciò è da avvertire che Bellini non faceva nulla senza mente; e ciò che si vorrebbe fruito del caso era il meditato effetto della sua antiveggenza. Sapeva egli bene che ad esprimere nobili pensieri occorrono validi esecutori, epperò aveva l’accorgimento di fare che tra i buoni potesse valersi di quelli che più gli tornavano acconci. Per questo aveva egli eletto tra i poeti Felice Romani, ben sapendo che ove la poesia è senza inspirazione, senza colore, e senza vita, la musica non può riescire nè vivace, nò colorita, nè inspirata; perciò dolevasi grandemente quando un malincòntro ne lo venne a dividere. E poi similmente necessario di notare che non fu Rubini che rese famoso Bellini, ma sibbene il contrario. La parte del Pirata fu che levò il gran tenore in rinomanza, e prima d’allora egli non aveva voce che tra i tenori mediocri. Nessuno poi come Bellini conobbe Parte di porre il cantante in istalo di far bella mostra di tutti i suoi mezzi; e così bene sapeva di loro approfittare, che facea parer valentissimi anche quelli che non lo erano. Può dirsi francamente, senza offendere verun amor proprio, che Reina non valeva Rubini; eppure nella parte d’Arturo nella Straniera, per avviso di quasi tutto il pubblico milanese, non solo Puguagliava, ma lo superava. È dunque questo un pregio che dovrebbe accrescere il merito di Bellini, non diminuirlo; ed è più logico il dire che Bellini ha giovato a Rubini, anzicchè l’uno all’altro. E ciò è così vero che Rubini non fu mai così grande come cantando gli spartiti di Bellini. Si direbbe che l’uno era la cetra, Paltro era la mano che toccandone le corde più soavi doveva farne uscire il suono melodioso. Non si contorca dunque P ordine delle cose dicendo che le stelle dan luce al sole perchè la luna rischiara la terra, e si lasci a ciascuno la sua propria gloria senza procacciare d’innalzar il cantante a detrimento del maestro. Bellini scrisse delle note passionate, inspirate, patetiche, caratteristiche che Rubini, la Lalande, Tamburini cantarono egregiamente,- e l’uno fu il creatore, gli altri gii interpreti; ma le sue note son belle indipendentemente dal valore di chi le sa ben proferire; son belle anche all’occhio di chi mutamente le osserva sulla carta; ed uno storico coscienzioso, prima di porre innanzi che il Pirata fu molto giovato dalla prodigiosa abilità di Rubini e dal benigno suffragio della sorte, doveva per lo meno accennare alcuno dei pregi che adornano il concetto della creazione, indi parlare di quelli dell’esecuzione. Si gioverà egli alla faìna di Corneille, di Racine e di Voltaire dicendo che le loro tragèdie parvero sublimi perchè Talma le recitava sublimemente? Cosi non ci sembra di dover menar buona al dotto biografo di Brusselles l’altra delle circostanze elio, secondo lui, favoreggiarono l’esordire di Bellini, quella cioè della sazietà eli’crasi diffusa negli animi dello stile rossiniano. e dell’incostanza di gusto di noi altri Italiani la quale, dopo aver elevato delle statue al genio d’un artista, spezza all indomani gV idoli che alla vigilia aveva incensati. Che cosa siano i pubblici egli, il signor Fetis, lo sa meglio di noi. e per aver dato plauso alle Opere di Bellini non avrebbe dovuto mai accusar d’incostanza una nazione, sapendo egli Lene che tutti gli uomini s assomigliano perchè tutto il mondo è paese; e perchè una simile accusa avrebbe dovuto ragionevolmente darla alla Francia, alla Germania, all’Inghilterra, alla Spagna, che non meno dell’Italia applaudirono ai parli del suo ingegno dopo aver decantato quelli di Rossini. Rossini ebbe in Italia quell’idolatria che molti altri uomini di genio ebbero in molli altri tempi in tutte le regioni del mondo: quella, per recarne una, che la Francia ebbe negli ultimi anni per il proteiforme talento di Voltaire. Non fu per incostanza che gl’italiani alzarono un altare di venerazione a Bellini, ma unicamente perchè, sentendo le sue dolcezze musicali, provarono un certo effetto alla moltitudine ignoto, che non solo molceva incantevolmente l’orecchio, ma destava nel cuore i più dilettosi sentimenti. Prima di lui avevano eretto de’ simulacri a Rossini perciocché quella favilla divina, di cui Io aveva dotato la natura, aveva generato tali meraviglie musicali che portarono l’Italia a chiamarlo per antonomasia il genio dell’arte. Senza rinnegare questo culto, sentirono che Bellini ne venne creando altre di un genere assai diverso, e lo alzarono a quella elevatezza di estimazione che si meritava, per la stessa ragione che avevano innanzi esaltato Rossini. Perchè l’Ariosto fu un portentoso poeta dovea l’Italia lasciar senza lode il Tasso? Rossini aveva un culto come l’autore del Barbiere di Siviglia, della Cenerentola, del Guglielmo Teli, della Semiramide, del Mosè, in cui la fiamma dell’ispirazione teneva luogo del raffinamento estetico che talora mancava; Bellini se lo procacciò col creare il Pirata, la Straniera.., i Capuleti, la Sonnambula, la Norma, in cui ii raffinamento estetico teneva luogo della i-ossiniana ispirazione. E l’uno e l’altro, senza far confronti, avevan pregi individuali che li distinguevano. L’uno erasi posto per una strada diversa dell’altro, non perchè limitazione dello stile di Rossini in cui s’eran gettati Pacini. Merendante, Carafa, Doti izet ti nelle prime loro Opere non era più di stagione, come dice il signor Fétis, ma perchè aveva compreso che la musica era stata dal suo retto sentiero allontanata. Fu per istinto, per riflessione, per un raro intendimento che dapprincipio non ebbero nè Donizetti. nè Carafa, nè Mercadante, nè Pacini, ch’egli conobbe che una maniera semplice, espressiva, analoga al carattere della poesia drammatica era la sola che doveva adottarsi per piacere alle nazioni del mondo, non solamente per offerire qualche cosa di nuovo all’orecchio d’un uditorio italiano. Diede egli quindi gran prova di senno e di discernimento tentando da sè solo una riforma che poi fu da tutti veduta sì ragionevole, che anche i seguaci del gran Pesarese corsero immediamente dietro i suoi vestigi. ì l’Anna Bolena, la Parisina. il Furioso, il Torquato, il Roberto JDevereux, la Lucia di Lammermoor, e quasi tutte le Opere di Donizelli, che tanto si risentono del fare belliniano, sono una prova di questa verità. L’Italia ha ’quindi avuto ragione di S applaudire per prima a ciò che intera l’Eu- «ropa ha in seguito applaudito. t (Sarà continuato) G. Ywali POLEMICA KiS|iosta «lei maestro gi timi, autore «Ielle lezioni itila in* ti’otliizione critica pubblicata interno a (juest’opcra «lai maestro llossi «li Torino nella Gaietti* Musicate «li Milano S. 53, png. 334 e tsegf. (Nel presentare cC nostri lettori il primo degli articoli critici dettati dal sig. maestro L. Rossi intorno al Trattato d’Armonia del sig. Quadri, abbiamo promesso che avremmo parimentifatto luogo alle giustificazioni di quest’ultimo, ove gli fosse sembrato necessario comunicarcele. Questa prima sua Risposta che accogliamo nelle nostre colonne precederà altri articoli polemici. i quali perù verranno dati in un supplemento onde non togliere luogo nella Gazzetta a materie più importanti. Del valore delle ragioni che il sig. maestro Quadri oppone al sig. maestro Rossi in questa prima sua risposta^ giudicheranno i lettori imparziali. L’Est. Dopo aver dato continuamente lezioni di armonia col mio Metodo per lo spazio di quindici anni in Napoli, Roma e Firenze; dopo aver fatte tre copiose edizioni di questo mio Metodo nel mezzogiorno d’Italia, ed una traduzione all’estero; dopo essere stato onoralo da spontanei articoli di accreditati Giox-nali e da lettere di approvazione dei primari professori, io cominciava a rallegrarmi di avere in qualche maniera contribuito alla coltura di uno studio, il quale, sebbene sia la vera base di tutta la musica, giaceasi però negletto, specialmente dai dilettanti, soltanto per l’estrema difficoltà di apprenderlo. Tutto contento di questa mia piccola gloria, diretta in qualche modo anche al vantaggio dell’arte, mi determinai di portare il mio Metodo anche a Milano, città che avendo io sempre risguardala quale centro del sapere italiano, avrebbe, secondo me, dato il suggello a quella riputazione che il mio libro andava acquistando... Vana speranza!... Non appena giunto in Milano, tutto ansioso di correr qua, correr là, di veder tutti, conoscere tutto, impaziente di ricevere, come altrove, congratulazioni ed onori, mi veggo invece salutato da una critica lunghissima, contro le mie Lezioni d’Annonia, fatta inserire in questa stessa Gazzetta da un sig. maestro L. Rossi di Torino. Ferito cosi nell’amor proprio, dolente di un’acerba sentenza, che sembratami non meritare, pensai subito a rispondere alla critica del sig. Rossi, articolo per artìcolo; anzi, per evitare ogni equivoco, volli prevalermi delle sue stesse parole per confutarlo. giacché egli mi dà lutto il campo di riuscire. A questo cominciamo dall’introduzione, pag. 224 della Gazzella. Dice egli dunque in sulle prime che, avidissimo di t conoscere quanto riguarda T arte da lui * professata col più grande amore, si diede | ad esaminare il mio libro così alF ir ’