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l’unità e semplicità del concetto, della stanata ricchezza delle situazioni, del vivo risalto e contrapposto felice de' caratteri, del fuoco delle passioni dipinte a tratti arditi e ben marcati, della soavità e vigore del linguaggio degli affetti messi in conflitto... Pel resto sia pure preparato l’ordito da antecedenze poco plausibili, ma si offra a primo tratto con piena chiarezza e perspicuità: gli incidenti secondarii siano pure non naturali od anche strani, ma diano per risultato dei punti di scena interessanti e caldi; i personaggi si veggano pure condotti con mal celato artifizio nelle situazioni capitali del dramma, ma queste situazioni capitali si svolgano con semplicità e rapidità; i caratteri delle parti principali siano pure delineati con tocchi esagerati o anche falsi, ma offrano fisonomie ben marcate che rivelino una natura forte e decisa sia nelle ree, sia nelle generose passioni. sia nella soavità, sia nell’impeto degli affetti.

Non avremmo che a gettare uno sguardo sulla storia della musica teatrale di questi ultimi cinquantanni per avvalorare di molteplici esempii la verità di quanto siamo venuti fin qui affermando. Dall’Alessandro nelle Indie dello Scarlatti, passando attraverso alla Nina pazza di Paisiello, agli Orazj ei Curiazj ai Cimarosa, all’Agnese di Paer, alla Medea di Mayr, alla Vestale di Spontini, ai Baccanali di Roma di Generali, alla Gazza ladra, all’Otello al Mosè ecc., di Rossini, a tutte indistintamente le Opere di Bellini, ovunque vedremo vittoriosamente dimostrato non potersi dare musica drammatica che davvero si meriti questa appellazione e non sia da confondersi con quell’altra musica non atta che a dar solletico all’orecchio e a lambire lo spirito, s’ella non attinge le sue ispirazioni dai vigorosi concepimenti della scenica poesia, e non si avvalora dello splendore e della forza vitale di questa.

E di sopraggiunta gettiamo uno sguardo alle tante partiture dei valenti compositori d’oggidì, quali fra esse sono le più applaudite, quali le poche su cui può fondarsi qualche speranza che non abbiano a sprofondare nel vasto pelago dell’obblìo che tante di esse già inghiottì? Quelle sole per le quali l’artista compositore, regalato dalla fortuna di un libro ricco degli or indicati pregi più peculiari al genere, potè dar esca e forza alla propria fantasia mercè gli aiuti del drammatico prestigio. Quali le peggiori e già dimenticate? le tante in cui il maestro, non solo non ebbe gli ajuti del poeta, ma dovette porre a tortura la propria mente per resistere al gelo contagioso del dramma, e nella lotta smarrì le sue forze e fu perduta per lui ogni speranza di scuotere e soggiogare lo spirito dello spettatore.

II.


VALLOMBRA, dramma lirico in due atti, di Giacomo Sacchéro, con musica del maestro Federico Ricci.


Ora vorremmo domandare al sig. Federico Ricci (e qui, dopo un esordio forse troppo lungo ma non inutile, il nostro articolo viene a bomba) vorremmo domandare al sig. F. Ricci s’egli pure in qualche importante occasione della sua carriera artistica non ebbe a provare nel caso pratico la verità di quanto noi siamo venuti qui astrattamente affermando. Osservi un tratto il suo Corrado di Altamura, che pure è lo spartito migliore dell’ancor povero suo repertorio, e ne dica se i pezzi di quello che più prontamente e caldamente gli vennero ispirati, e quindi riuscirono di maggior effetto, non sono appunto i soli ch'egli ebbe a tessere sulle più felici scene del libro e sui punti più drammatici dell’azione? E se nel tutt’insieme quella sua Opera gli riuscì lodevolmente concepita e ricca di svariate tinte d’affetto, a che dovette egli ciò se non all’aver avuto a musicare un dramma ideato non senza intelligenza dell’effetto peculiare a simili componimenti, e svolto con chiarezza, ed animato a luogo opportuno dal felice evidente contrasto dei morali interessi de’ personaggi?

All’incontro il concetto drammatico della Vallombra (ne spiace dovere mostrarci severi con un giovine poeta che a molta modestia accoppia più che discreto ingegno e ottimo cuore) è di natura sì bizzarra, sì avviluppato e strano si offre l’intreccio detrazione, sì incertamente disegnati si presentano i caratteri, che davvero non è a meravigliare se lo spettatore non sa quasi mai farsi retta l’idea della posizione varia de’ personaggi, né sa dire a sé stesso che cosa essi sentano, o pensino o vogliano! Or vi piace permetterci di indicarvi le pessime conseguenze derivate, a nostro giudizio, da questo enorme difetto capitale del libretto? Dubbiezza e stento nel compositore imbarazzato, incerto nelle sue ispirazioni per non avere bene afferrato il concetto del dramma (e notate se in fatto lo stento e la dubbiezza non sono i difetti principali della nuova musica del Ricci!) Dubbiezza, stento e quindi malavoglia ne’ cantanti per non aver ben capito lo spirito delle parti ad essi affidate, e non potuto ben persuadersi del relativo interesse drammatico delle medesime; per ultimo dubbiezza, fatica di mente, impazienza e quindi, anzi che piacere, dispetto nel pubblico, perché al vedersi spettatore di un’azione intralciata e poco men che assurda, lungi dal trovar nella musica lo sperato compenso alle sgradevoli sensazioni prodotte dalle or accennate pecche del dramma, ebbe a subire, per colpa della musica stessa, un sopraccarico di fastidio e di noia.

Con tutto questo però non vogliamo affermare che tutta la musica della Vallombra del bravo Ricci sia magramente concepita, né che in ogni pezzo si riveli un assoluta povertà di ispirazione e di sentimento. Al contrario ci dà l’animo di sostenere che alcuni squarci dello spartito sono molto meno cattivi di quanto parve all’inesorabile platea doverli sentenziare senza appello. Citiamo nella Scena I. la prima parte della preghiera del coro, tessuta con buone frasi melodiche, con chiaro e piacevole disegno ordite; l'adagio cantabile della sortita di Gonzalvo (Guasco) colorito con sufficiente affetto; il duetto della Scena V tra Vallombra e Mudara, felice in alcuni passaggi per calor di passione e movimenti animati; il coro che precede la Scena VII non vuoto di sentita espressione... ecc.

Or domandiamo noi, perché credete voi, lettori, che nei passi dell’Opera or accennati la fantasia e l’affetto del compositore non abbiano dormito come nel resto? A nostro credere, precisamente per la ragione che quei passi cadono sui migliori punti del dramma, su quei soli pochi punti cioè nei quali i personaggi dell’azione sono posti in situazioni morali abbastanza naturali i e chiare, e queste situazioni sono accennate con tocco animato e sicuro. Chi non ci presta fede sulla parola ricorra al libretto, osservi, confronti e poi giudichi.

Se non che vogliamo spingere più innanzi la nostra argomentazione e sostenere che i brani musicali del nuovo spartito del Ricci or indicati, che gli riuscirono i migliori per avere avuto a tesserli sui passi più felici del libro, furono quelli appunto che i cantanti eseguirono con maggior sentimento e lena, e che il pubblico meglio comprese e gustò e al compositore guadarono nella seconda recita i più vivi, o forse diremo meglio, i soli applausi cordiali... Dunque?... Le conclusioni più naturali di questo nostro ragionamento, non al tutto inopportuno, com’altri potrebbe credere, si presentano da sé stesse. La prima e più calda raccomandazione da farsi a un compositore egli è questa che badi bene attentamente alla scelta del libro. Dipende da esso, come dal primo anello, tuttala catena delle conseguenze contrarie o favorevoli che determinano o una felice o una disgraziata riuscita. Riserbandoci a meglio sviluppare questo nostro pensiero in alcuni articoli che intendiamo pubblicare intorno alle leggi che regger devono la presente poesia melodrammatica, ci limiteremo per ora a far voti che al sig. Ricci si offra al più presto occasione di un esito più fortunato di quello or toccato alla sua Vallombra.

E per conchiudere i presenti cenni col dire alcune cose in genere di questa sua nuova Opera, osserveremo che gli sforzi di uno stile drammatico elevato e i tentativi di un ingegno musicale che vorrebbe sciogliersi dagli impacci del vecchio sistema di composizione, non sono sempre avvalorati dal vigore di una pronta e ricca fantasia e da quella spontanea vena melodica che in ogni genere di musica deve essere vanto principale. L’istromentazione accurata, ed anche in più luoghi elegante, le armonie ben condotte, pregi che pur sono a lodarsi nella Vallombra, non bastano a imprimere il movimento della vita ove vita non è. Nelle arti, le bellezze che ponilo somministrare la scienza e lo studio non hanno mai valore se si offrano non accoppiate a quelle che scaturiscono dalle vere fonti del bello, l’ispirazione e il sentimento.

In oltre, se in alcune parti di questo suo ultimo spartito il sig. Ricci aspirò agli ardimenti del nuovo genere melodrammatico e ai liberi sviluppi delle forme, in altre parti cadde in contraddizione con sé stesso, e si valse senza riguardo dei modi e delle fogge di comporre più viete e disusate. Da ciò incertezza, ineguaglianza, disarmonia nel disegno dei pezzi, nel colorito, e nello stile. Se non che le cose che appunto meno piacquero al pubblico, vale a dire le quattro o sei cabalette che il maestro gittò forse per entro alla partitura come pascolo alle orecchie volgari, ò come incenso arso per espiazione all’idolo del mal gusto, furono appunto quelle che meno piacquero. Diremo anzi di più: alla prima recita l’ultimo scrollo che fece pendere dal lato della condanna la bilancia del giudizio degli spettatori fu provocato precisamente da una, l’ultima di quelle sciagurate cabalette! E però, quei medesimi volgari mezzi d’effetto che il signor Ricci credette necessario usare a puntello del suo edilizio in alcune parti arditamente ideato, tornarono a danno finale dell’esito. Se il sig. Ricci avrà a scrivere