Pagina:Gazzetta Musicale di Milano, 1844.djvu/40

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— 36 — scendo e quelle grandi cadenze finali con tanto magistero stentate e prolungate, non potevano non trascinarsi seco l'entusiasmo degli indotti, che maravigliavano alla potenza di così nuovi effetti, e dei dotti che ammiravano l'artifizio del profondo compositore. Ma e gli uni e gli altri erano lungi dall'immaginare a quale rovina inevitabile del canto dovesse condurre quel genere di musica. Ora ce ne accorgiam noi; noi che non abbiamo più non solo cantanti che sappiano cantare, ma nemmeno gridatori che possano urlare. Egli è infatti proprio lì che perdesi anzi tutto ogni buona scuola, e per di più si sacrifica anche ogni mezzo vocale. Questo nuovo stile, anziché volgere a migliore via, divenuto necessità per lo appunto per mancanza di buoni cantanti, andò sempre più aumentando d'esagerazione; in guisa tale che, se al suo cominciamento aveasi cura ancora d'una certa quale ragionata distribuzione delle parti, in giornata, atteso che l'energia vocale è già per continui sforzi scemata d’assai, si ritiene di essere costretti a non più scrivere né arie, né duetti, insomma nulla di ciò che può avere relazione colla parola canto; ma invece a raddoppiare, triplicare, moltiplicare gli unisoni vocali, vale a dire a fare strillare due soprani all’unisono coi contralti all’unisono anch'essi fin dove possono arrivare, e poi giù all’ottava, e poi su ancora all unisono, con due o più tenori pure all unisono tra loro, all unisono coi contralti, all'unisono coi soprani, e con due o tre bassi rinforzati da un assieme di cori, di tromboni e d oficleidi; alla quale massa ancora troppo debole, aggiungesi ormai indispensabilmente la banda, la quale rinforza, supplisce, ajuta, anima alla gran tenzone soprani, tenori e bassi, finché li guida ad incontrare da prodi onoratissima morte. - Ma questo non può durare: ormai queste vere esplosioni militari devono essere vicine a raggiungere il loro scopo che è quello di intronare ogni orecchio, e forza è che si cominci fra non molto ad implorare di nuovo la calma. Non indagheremo adesso il perché, ma è cosa di fatto che il signor Pacini, come prima ho notalo, ha voluto in parte anch’egli pagare il tributo alla moda. Prova ne sia il suo second'atto, il quale, quantunque eminentemente travagliato, fondasi su questo sistema di esagerazione, dal quale sono certissimo che il buon senso del maestro stesso rifugge. Ma tale osservazione non va applicata, come accennava, che a questo solo finale, mentre il rimanente dell’opera, se ne traggi brevi tratti, è trattato bensì colla severa grandezza che al soggetto s’appartiene, ma senza quella esagerazione e pretensione di effetto di masse, che non può se non condannarsi dagli uomini di buon gusto. Pacini deve ambire al vanto di raddrizzare l'arte deperente; non a quello di sapere imitare qualunque scuola, tanto più se cattiva. Il colorito generale di questa nuova e pensata partizione è quasi ad ogni singola parte più che consentaneo alle richieste del libretto. - Lo strumentale è più largo e poggiato che quello delle altre opere dello stesso autore, e que' minuti ricami d’orchestra, che Pacini sembra solitamente prediligere, trovansi qui più rari e castigati. I recitativi pure ed i parlanti o tempi di mezzo sono più sostenuti ed hanno molto dimenticato di quello stile balzano, che la Gazzetta Musicale ebbe ancora a condannare, parlando, or sono due anni, della Saffo. Il primo tempo della sinfonia dell'Ebrea è di lavoro ingegnoso e delicato. L'introduzione é degna d'ogni elogio senza restrizioni. In questa il colorito solennemente tranquillo e biblico che demanda il dramma vi è reso a perfezione. Conosco poche cose di Pacini più nobilmente trattate di questa. Il recitativo susseguente di Eleazaro e la sua invocazione (da Marini stupendamente eseguila), cui chiude un Terzettino con Cori formano un pezzo di rara eleganza, e di severità non scolastica, ma sentita. Non trovo però sufficientemente motivata la modulazione improvvisa dal Do al Re bemolle. Il pezzo d’assieme che sussegue alla sortita d’Antioco ridonda pure di scorrevolezza e novità. L’attacco di Eleazaro sulla bella strofa Non degli orrendi sabati, cui si appigliano e connettono le altre voci è trattato con disinvolta e nobile maestria. La cabaletta della stretta di questo pezzo lascia desiderare un compimento più nuovo, e più analogo al carattere delle prime misure: è bello invece per caratteristica ruvidezza il movimento d'orchestra che le succede. Gentile è il preludio della Cavatina di Berenice; più gentile ancora il primo tempo di questa. La cabaletta, improntata del far brioso di quell'inesauribile fantasia paciniana, modula, se la memoria non ni inganna, nella sua seconda parte alla seconda del tono, perlocchè la ripresa del motivo principale resta alquanto fredda ed appare irresoluta, almeno le prime volte che si ode: fa l'effetto ch'essa venga ripetuta alla quinta del tono. L'a due del duetto tra Rachele e Manlio, benché un po' saltellante, è pure una vezzosa ispirazione, accompagnata scherzosamente dall'orchestra, il di cui gioco sembra per verità far eco alle parole de' due amanti «Tutto sarà delizia, sempre con te, mio bene»; quando però si vogliano eliminare que' colpi troppo secchi di quella benedetta gran cassa, la quale sturba la poesia di quel grazioso cicaleccio di stromenti che tanto ingegnosamente si sposano alle due voci. Non ho però potuto ancora capire una certa scala che la Montenegro fa avanti l’attacco della cabaletta sul verso: L’ira sfidar saprò. Vi ha sotto un accordo di sesta accresciuta: quella specie di scala diatonica non mi ha suonato bene. Avrò. forse male inteso. Il terzetto è trattato drammaticamente, massime al suo aprirsi. Veniamo al secondo atto che non componesi se non di quel pezzo, di cui poc’anzi ho incolpata l’esagerazione. Rachele scopre Manlio nell'alto di porgere la mano di sposo a Berenice. La posizione drammatica è pressoché simile a quella di Saffo allorché trova Faone presso ad impalmare Climene. Non è meraviglia perciò se all’atto di dover sovrapporre la musica a questa scena, il compositore abbia sentite scosse le sue libre musicali da un movimento unisono a quello onde fu ispirato componendo il magnifico finale della Saffo. Ed è forse per tal cagione, che, come quello, questo pure è piantato in Si bemolle minore, in tempo ternario, staccato dal rimprovero della donna tradita; e sarà perciò pure che il canto modula come quello di Saffo al Re bemolle maggiore, sviluppandosi poi gigantesco in Si bemolle maggiore istessamente come nella Saffo colla sottopostavi medesima esclamazione di tutte le altre voci. Dopo tutto questo chi non ha sentita quest’opera, potrebbe oppormi, che Pacini vi ha trascritto il finale della Saffo per intero. Niente affatto: cosa volete? La è una reminiscenza che parla agli occhi e non alle orecchie. Benissimo quello e benissimo questo. Questo anzi è ancor meglio lavorato: le parti vi sono accuratissimamente disposte; la ripresa in massa della cantilena sul Si bemolle maggiore trasporta ad entusiasmo, e verso la fine l’isolamento delle voci abbandonate a sé stesse e rispondentisi le une alle altre, è nuovo e prepara con arte maestosa l'ultimo crescendo che irrompe su quel fortissimo. Qualche sofistico volle notare che le ultime battute hanno la leggera pecca di ricordare la chiusa d'un noto pezzo d'assieme del Bravo. Ma che importa? - Infatti egli è questo un brano senza eccezione. quando tuttavolta lo si guardi dal solo lato dell'effetto acustico, e non dall'altro, che sarebbe pure più ragionevole, della ragion drammatica. Devesi aggiungere che a maggior rinforzo è qui anche introdotta la banda, la quale non può assolutamente suonare in quel momento senza contrastare colla situazione del dramma. Ma tant'è: la banda s'é da qualche tempo adottato di incaricarla dell'ufficio d'una seconda orchestra, senza più por mente se le drammatiche convenienze possano permettere che in dati momenti ella suoni sì o no. Intendiamoci bene: (ho già altra volta toccato quest’argomento); i bandisti, allorché presentansi sul palco, sono personaggi suonatori, è vero: ma in ogni modo personaggi essi stessi inerenti al dramma, ed al quale con viene chie prendano parte, perciò non devono suonare se non quanto le esigenze del libretto richiedono. Vuolsi dal poeta una marcia trionfale, una marcia funebre, una festa da ballo? La banda suoni pure la marcia, le danze. Ma allorquando in mezzo a queste danze sopravviene un grave incidente che mandi sossopra e danze e feste, la prima cosa che si deve fare, mi concederete, è quella di licenziare o almeno far tacere i sonatori. Se però si voglia sostenere il contrario, cioè che la banda possa starsene sul palco, non come facente parte dell'azione, ma solamente ad oggetto di rinforzare od accompagnare il canto, allora non so perché non la si faccia piuttosto discendere in orchestra, o meglio ancora non si faccia invece montare l'orchestra sul palco. Sarebbe cosa un po’ curiosetta il vedere i nostri buoni amici e colleghi professori d'orchesla vestiti da Romani o da Ebrei, o come meglio si voglia, volgere sul palco scenico a destra e a sinistra i loro archetti de’ violini e contrabbassi. La sarebbe una eccellente innovazione alla quale ogni impresario farebbe per certo buon viso, perché potrebbe in siffatto modo risparmiare la spesa d’un centinajo di comparse, ed ingrandire lo spazio del parterre a maggior comodo de’ concorrenti e lucro della cassetta. Lasciamo lo scherzo, ma conveniamo che di poco meno è ridicolo anche questo controsenso così invalso in giornata. Torniamo a Pacini. La stretta del finale apresi con una melodia sommessa e seccamente spezzata, a ritmo assai marcato che gira crescendo poco a poco dal Re minore al La minore e viceversa. Questa seconda modulazione urtò le rigorose massime di qualche classicista. Un’altra melodia più cantabile si sviluppa più tardi: ambedue si alternano, e una grandiosa cadenza chiude questo eccellente secondo atto, che non ha, lo ripeto per 1*ultima volta, che il solo difetto, as