Pagina:Gazzetta Musicale di Milano, 1846.djvu/6

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glia alla luce di doppieri d’oro, che non sa nulla del dimani perchè non si è curato di badare all’oggi; ora audace perchè ha dentro di sè una melodia che gli rimugghia nel cuore; ora sconfortato perchè le forme materiali vengono meno all’ampiezza di ciò ch’ ci sente: sempre colpito da una demenza sublime che lo fa girare pensoso labbreggiando non so quale arcana favella, la fronte ammagliata da non so quale interiore inquietudine.

È un nostro amore quello di trovar ricordi di fisionomia, rapporti frenologici fra un gran capo e l’altro. La faccia di Franz Liszt ci rammenta più d’una linea guerriera, e più d’un tratto di nordico puritano, abbenchè ci sia in mente che egli poco di quella e di questa tendenza abbia dalla natura sortito: c’è avviso di vedere in quell’angoloso profilo un non so che dell’arcigno sguardo dell’Alighieri, e senza dubbio, dalla rima in fuori, il grande pianista è pur poeta di validissima e forse troppa fantasia dotato: anch’egli ha creato le melodie del paradiso, a bear le elette menti, e le sue bolge infernali formate dai vorticosi giri delle sue armonie. Franz Liszt è nato poeta: se non ha fatto versi gli è perchè non ne hanno fatti nè Giorgio Sand nè Giangiacomo Rousseau, che son pur maestri di poesia.

Franz Liszt è poeta che oltre al nutrire nelle cellule delle sue intelligenze una originalità che scoppia e diffondesi all’interno suo cenno, originalità verde, nerboruta, pretta, ha anche un dono che forse nessuno possedette altrettanto, quello di manipolare e svolgere con evidenza e colore una idea in quante guise gli aggrada. In generale è impossibile che un pensiero venga trasformato o meglio travestito d’altri germani pensieri senza che alle lunghe la sua sostanza melodica perda della propria vaghezza cd efficacia; una volta lanciato nel vano del caso un pensiero di rado può ragunare tutti i suoi clementi e presentarsi all’orecchio nella sua primitiva indole; ogni sua relazione nel divagare si sloga, divien meno evidente, e, relazioni adultere formandosi, perde per così dire quel fare concentrico e netto che pria lo faceva sì chiaro. Ed è una dote di questo artista l’esser multiforme cd uno, forse anche perchè il mezzo di esporre la sua poesia, cioè la musica, è meglio adattata a quest’uopo che non il verso: la sua musica pare sempre una baccante scarmigliata, che corre a balzelloni, che si contorce quasi briaca, ed invece è musica quant’altre mai corretta, sostenuta da un pensiero fondamentale, da un fare non diremo prudente ma conscio... Ed a bella posta abbiamo cominciato da questo paradosso quasi per imbarazzarci di uno, mille essendo i paradossi, anzi tutto essendo paradosso nell’esame dell’ingegno di Liszt.

Abbiamo più volte udito dire colla massima sicura freddezza che Liszt è un pazzo da catena, e già abbiamo fatto osservare nel nostro studio sopra Chopin in qual modo la denominazione di pazzo debba essere intesa dai veri e quieti studiosi. La novità porta con se non so qual marchio irritativo che spiace in sulle prime alla folla; parlo della novità nova, non della novità vulgare: fra la novità ed il pubblico è mestieri esista una atmosfera intermedia, un filo morale che a poco li ravvicini, talchè questo non possa dirsi urtato da quella, ma semplicemente ed a gradi toccato. Nelle opere teatrali è forza sia fatta grande concessione al gusto di tutti, e le novità non debbono essere presentate che come lontane intenzioni e vaghi presentimenti. Non così nelle opere di speciale strumento, nelle quali il compositore non ha che fare con il gusto di tutti, ma solamente col gusto di quei pochi che mercè un progressivo studio sono giunti a tale, di poterle interpretare od almeno capire, nel che troverebbesi l’atmosfera ed il filo morale, di cui parlavamo. È certo che se la più semplice e piana dalle fantasie di Liszt, trasportata venisse coll’istrumentazione sul Teatro metterebbe tutta la famiglia de’ diavoli nelle panche e nelle logge: tutto il pubblico griderebbe al fuoco; ma Liszt solo nel suo cantuccio avrebbe il diritto di sorridere allo schiamazzo, e il torto non sarebbe della sua musica, ma di averla fatta o d’averla egli stesso strumentata pel Teatro: chi ode la musica di Liszt come quella di teatro ne viene a dargli del pazzo, e mentre ha ragione ha torto.

La musica è una scienza: quando essa per tutto contrappunto, per tutta combinazione armonica non aveva che la consonanza dell’ottava, che è la più semplice, i popoli barbari avranno chiamato pazzo chi trovò quella della terza; questa è una trista aberrazione che si legge e leggerà dalla prima fino all’ultima pagina nella storia umana. E pur giusto il dire che Franz Liszt è forse fra i compositori quello che più presta modi a simile detrazione. La sua melodia è come una linea dorata che attraversa un nembo di colori: il suo occhio la segue sempre, ma alle volte essa sfugge all’occhio di un terzo che deve essere meno penetrante del suo. Pare che egli nel sostituire alla semplicità e chiarezza volgare, una chiarezza e semplicità di forma più superba ed equivoca, voglia valicare i limiti della naturalezza e dare alla sua fantasia maggiore spazio di regno di quello che alla musica non convenga: ma è nostra ferma opinione che l’entusiasmo e l’immaginazione non hanno ad avere altri limiti fuorchè quelli della coscienza dell’artista; il giudizio e la moderazione de’ conoscenti devono fare il resto: e la coscienza dell’artista riconosciuto da tanti per tale non può deliberatamente cozzare con sè stessa, sotto pena di farlo dichiarar pazzo davvero, non dalla folla, ma dagli eletti.

(Sarà continuato) G. Torelli.


allineamenti di contrade; ricoveri per l’infanzia povera, per la mendicità, pe’ traviati, pe’ sordi-muti, pe’ ciechi; esposizioni numerose d’oggetti d’arti, di manifatture, prove non dubbie di un progresso non men rapido che sorprendente; la mercatura animata ed estesa, malgrado la gelosia nazionale di privilegiare le proprie manifatture... Oh! egli è uno spettacolo grande che ci presenta allo sguardo la generale operosità del secolo in cui viviamo! Che se tutto non è nuovo, come alcuni potrebbero farci osservare, tutto è peraltro vivo, animato, sdegnoso d’ogni ritardo, d’ogni inciampo, e impaziente di migliorare, di progredire.

V’hanno de’ begli spiriti e degli spiriti torbidi, degli uomini inquieti e degli ipocriti, pei quali la parola progresso è una decisione, l’istruzion popolare un fomite ad idee di generale sovvertimento, l’agiatezza degli uni e il ben essere degli altri un pensiero di grave peso, la pubblica quiete uno spino; costoro avrebbero imprecato ad Aristide la sua giustizia, a Tito la sua clemenza, ad Augusto la sua gloria, ad Elisabetta i sommi ingegni del famoso suo regno, a Galileo la fama delle sue immortali scoperte! Possono or dunque applaudire all’operosità di un secolo che trova nella pace e nell’industria ciò che non hanno trovato i precedenti nelle lotte o nella sonnolenza?

Se non dimentichiamo i confronti, qualche cosa (e più forse di qualche cosa ) ci rimarrebbe da desiderare nella repubblica delle lettere; perocchè dove una volta abbondavano i parti di utili e compiute e splendide creazioni suppliscono ora, in maggior parte, gli aborti. Molli, a giustificazione o meglio a scusa, parlano di circostanze e di condizioni sotto la cui influenza parrebbe non poter crescere e svilupparsi gl’ingegni; noi non sapremmo fin dove possa arrivare la verità di codest’osservazione; sappiamo però che son nate, sotto i nostri occhi, opere storiche e letterarie non periture di Manzoni, di Nicolini, di Litta, di Monti, di Perticari, di Arici, di Cesare Cantù, di Carrer, e di alcuni altri o vivi ancora o di recente lagrimata sepoltura; ma il silenzio attuale delle lettere italiane, sotto il ciclo delle sovrane inspirazioni, e non interrotto, da alcune eccezioni in fuori, che da qualche passagger cicalio, ci farebbe quasi arrossire di noi medesimi, se non avessimo a conforto lo splendore delle nostre arti e la speranza di più lieto avvenire.

La pittura, la scultura, l’intaglio, la litografia, con maggiore o minor onoranza ma con pari attività alimentano assidue la gloria del nome italiano, e, insieme con queste arti belle, la musica, altra fonte di lodi per la nostra patria, e argomento per essa di gratitudine universale, giacchè le melodie italiane vanno oggidì a deliziare gli orecchi delle più colte nazioni del mondo.

In questa terra privilegiata risuonavano soavi note musicali molti secoli prima che il cielo svelasse il secreto delle sue immortali armonie a Paisiello ed a Cimarosa; e il popolo napolitano e il gondolier di Venezia conservavano per tradizione le loro canzoni e le rime dei nostri poeli quando i nostri villici avevano già imparato a intuonare in coro le leggende del contado, le preghiere della sera e i cantici romorosi delle loro festività religiose.

L’Italia dunque era già tutta armonia allorchè sorgeva dal maestoso suo seno il più grande de’suoi compositori, il più ardito de’ suoi novatori, il più popolare de’ suoi maestri di musica, quello il cui nome fu