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CORRIERE DELLA SERA (25-26 Gennaio).. Quando la bacchetta del Faccio diede il segnale dell’attacco, il nostro massimo teatro presentava l’aspetto delle grandi occasioni. E l’occasione era grande perchè si trattava di riudire- con gli elementi della Scala la musica del giovane lucchese, nella quale gli elementi di cui poteva modestamente disporre il Dal Verme nel giugno scorso avevano fatto conoscere al pubblico freschezza di fantasia, e frasi che toccano il cuore perchè da esso uscite, e una regolarità di fattura delle più finite. L’orchestra eseguisce con un po’ d’accompagnamento di cicaleccio nei palchi il breve preludio delle Villi e quelli fra gli spettatori che sono stati attenti devono dire che si è fatta onore. E il sipario si alza per il PRIMO atto.. Gli occhi ammirano il discreto scenario e l’orecchio è scosso dal romóroso coro primo — l’attenzione del pubblico principia, ad aumentare durante l’elegante, se non nuovo valzer Della Vecchia di Magonza... e tocca il segno desiderato a quella dolce inspirazione che è la romanza di Anna, alla fine della quale il maestro Puccini ebbe la prima chiamata al proscenio. La signora Pantaleoni ha cantato con squisitezza di gusto i due couplets dal principio alla fine; ma specialmente nella elegantissima cadenza, resa anche originale dal Puccini per averle unito quel fino accompagnamento, la valente artista s’è fatta vivamente applaudire. Il duetto che segue, fra Roberto ed Anna, al teatro Dal Verme ha ottenuto un effetto che iersera alla Scala è in parte mancato. La frase delicata.... dubita di Dio Ma no, dell’amor mio non dubitar... ebbe per parte del soprano una felice interpretazione, ma.fredda per parte del tenore. E, pur troppo, è mancato anche l’effetto che il baritono poteva trarre dalla preghiera,’ che serve in certo qual modo di proposta al bello e grandioso finale, che fruttò al maestro altre due chiamate. Calato il sipario, prima ancora che si spegnesse nell’ampia sala l’eco dei potentissimi ilo che le cornette emettono nella replica della energica frase, il pubblico ha chiesto con insistenza il bis, che è stato gentilmente concesso, con guadagno per il giovane autore di due nuove chiamate. E uscendo a passeggiare nei corridoi, nell’atrio, al caffè, l’orecchio del cronista udiva le solite calorose dispute fra chi discuteva se quella frase romorosa rispondeva alla situazione del dramma indicata dalla preghiera — e chi domandava quale altro dei giovani maestri ei avesse dato finora una frase simile. Ma il campanello elettrico invitava ad udire il SECONDO ATTO. Brevis oratio, anzi brevissima, una ventina di minuti di musica o poco più. Applaudito il primo tempo della parte sinfonica e chiamato al proscenio l’autore una volta dopo il coro delle donne, ed un’altra dopo quell’ammirabile lavoro strumentale che intitolò Tregenda. Passata senza biasimo e senza lode tutta la scena del baritono, e ridestata l’attenzione nella scena seconda, alla replica fatta ’ dal baritono della frase di perorazione: O sommo Iddio — del mio cammino. Accolta con favore la ripetizione della frase principale del primo duetto, accentata dalla Pantaleoni in modo efficacissimo. Grida di brava. Un’altra chiamata • all’autore, ed un’ultima dopo la ridda, a sipario calato. / Al Dal Verme, nel giugno dello scorso anno, i pezzi delle Villi che rriaggiorì mente hanno impressionato il pubblico sono stati il duetto d’amóre, il finale IJ primo, il brano sinfonico che chiude la prima parte e l’intermesso, che ora fa parte del secondo atto. Poca differenza v’è stata iersera. Il Puccini deve essere (riconoscente al Faccio che l’ha trattato da vero fratello, e alla brava signora Pantaleoni, ma tutt’altro al tenore, al baritono, ai cori. — ag. CONCERTO DI BENIAMINO CESI storia di Beniamino Cesi, che narreremo in uno dei prossimi numeri, dando in pari tempo il suo ritratto, dimostra in lui una forza non comune di volontà, una fermezza di propositi che non giovò solo a lui, ma all’arte italiana. Nei programma dei due concerti della Società del Quartetto per varietà e novità interessantissimi, il distinto artista ha potuto rivelarsi intiero e porre nella miglior luce le sue doti eccezionali. Gli sono riconoscente innanzi tutto di avermi fatto grazia di quel repertorio circolante. che oramai fa le spese della pluralità dei concerti e che sta per diventare uggiosamente stantìo. Nè Rameau, nè Handel, nè Frescobaldi, nè Gluck e nemmeno Scarlatti hanno ancora troppo flagellato i nostri programmi e quei. nomi hanno opportunamente sostituito per esempio i Rubinstein e i Liszt pei quali ho un’ammirazione grande, ma che si arresta davanti al toujours perdrix: le pernici delle quali non mi stanco, devono chiamarsi Beethoven, e Bach. Il pubblico è stato, credo, del mio parere, ed ha accolto festoso quelle esecuzioni di stile incipriato per le quali il Cesi ha una speciale attitudine. Nella Gavotta variata di Rameau, il più francese dei musicisti francesi, nel Minuetto dell’Orfeo di Gluck, trascritto da Saint-Saëns, altrettanto bello della famosa Gavotta dell’Ifigenia trascritta da Planté, e soprattutto in quella meravigliosa Gavotta di Handel tolta, se non erro, dalla Suite in sol e che fu suonata senza aiuto del pedale, il pianista ha mostrato F incanto del suo tocco morbido, vellutato, dal quale sgocciolano ad una ad una con grazia — 46 e purezza quelle note periate della stessa intensità di suono, quelle sorta di flautati della parte acuta della tastiera che consacrano nel Cesi quella che il Jaëll chiamava la patte de velours. Di Rameau mi è piaciuto tanto anche il pezzo caratteristico chiamato I Ciclopi al lavoro, in cui v’è un bell’effetto di musica imitativa a raffigurare i colpi dei martelli sull’incudine. In Cesi è straordinaria la chiarezza dell’esecuzione dovuta a un senso squisito della quadratura ritmica, a un meccanismo di una limpidità, di una correttezza, di una fluidità che rivela i laboriosi studi dello stile legato. Tra gli autori che meglio interpreta, va posto Scarlatti, del quale Cesi ei ha dato tre Sonate da lui medesimo accomodate secondo le esigenze del moderno pianoforte così discosto dal clavicembalo, l’una più interessante dell’altra dal punto di vista musicale, ma per l’esecuzione delle quali va ricordato che furon composte per istrumehti spogli da seduzioni di suono, di timbri. Di trascrizioni sue pianisticamente ed esteticamente indovinate, il Cesi ei ha fatto conoscere quella della graziosa Gavotta in Mignon di Thomas e quella della Marguerite au- rouet di Schubert in cui il movimento dell’arcolaio e il canto espressivo affidati alla sola mano destra con artifizio un po’ simile alla famosa Serenata del Don Giovanni di Thalberg, hanno meravigliato l’uditorio plaudente. Canto espressivo! ecco un’altra delle più spiccate caratteristiche del maestro napoletano: è difficile per non dir impossibile mettere nel canto maggior grazia ingenua, maggior sentimento fine e delicato, maggior passione, maggior idealità — e di questa sua affascinante dote nelle varie gradazioni accennate, ha dato luminosa prova, per non dir d’altro, in quei poemetti deliziosi che Schumann ha intitolati Scene infantili. Coloritore pieno di slancio e di efficacia, robusto ed appassionato s’è mostrato il Cesi nella Polacca in fa diesis minore. Tutti sanno che le Polacche (antica danza nazionale slava, danza guerresca per eccellenza) sono le opere in cui Chopin ha messo la maggior energia, sorta dal profondo sentimento nazionale. Questa dell’Op. 44 è una dèlie più forti sue concezioni e mi rammento che Liszt ne ha fatto, nel suo libro, una bella analisi. Il Cesi ha reso mirabilmente quel motivo principale sinistro, quel ritorno prolungato di una tonica al principio di ogni battuta a guisa di colpi di cannone, in seguito a cui si svolgono accordi strani interrotti ad un tratto da una mazurka ideale che sembra un sogno di pace in mezzo al rumoreggiare della sommossa. CO Ho già lodato la quadratura dell’esecuzione che distingue il professore Cesi, il suo fraseggiare netto, chiaro, il suo modo deciso di sostenere i tempi — e ciò mi dispenserebbe dall’aggiungere che egli è un ottimo elemento di musica d’assieme. Il suo primo debutto alla Società del Quartetto fu precisamente nel Trio, Op. 70, N. 2, di Beethoven: dal primo tempo d’introduzione, con quel tema sostenuto a canone dai tre istrumenti, fino al brillante finale in cui il Cesi ha sfoggiato un brio straordinario, uno slancio drammatico che chiamerei rubinsteinesco, l’esecutore di musica d’insieme potè essere giudicato — e non minore apparve nel magnifico Concerto in re minore di Bach per cembalo con accompagnamento di due violini, viola e basso. Ho tenuto come razzo finale per illuminare completamente la bella individualità artistica di Beniamino Cesi la sua interpretazione della grande Sonata in si bemolle (Op. 106) di Beethoven, quella chi i musicisti hanno chiamato la Sonata dei Giganti e che merita questo nome non tanto per la mole (58 pagine) e le difficoltà tecniche, quanto per la potenza ed il numero delle idee profuse in quell’opera colossale. Non so quanti possano suonare questa composizione trascendentale, che il solo ritenere a memoria costituisce eseguire un tour-deforce, talché nessuno si meraviglia se Biilow stesso s’arresta a metà della terribile fuga finale: — certo, pochi interpreteranno come il Cesi quel meraviglioso adagio in cui vive un mondo di musica e di musicisti, Chopin, Schumann, Meyerbeer, persino Wagner coi suoi violini acuti, quell’adagio che dura 15 minuti ed era già alle stampe quando sei mesi dopo averlo composto Beethoven scrisse a Ries per pregarlo di aggiungere due note alla prima battuta! due note per verità piene di significato.