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sua libera volontà, non fece mai troppo la felicità di lei. L’educazione datagli da Cristina l’aveva fatto leggero, e senza risorse come principe; tanto che, fino dai primi mesi del matrimonio, infedele alla moglie, scriveva ad un suo intimo: «Faccio un gran numero di gelosi, e mi diverto a darla ad intendere a destra e a sinistra, e a fare arrabbiare qualche volta la Duchessa, ma ha già incominciato a farsi più ragionevole».

E infatti Giovanna si mostrava tanto ragionevole, come egli diceva, per non lasciar treipelar al servidorame tutto il dolore e il dispetto che provava (specie all’epoca dei rinfuocolati amori del Duca con la Mancini, di passaggio da Torino per recarsi a Roma), fino a correre il rischio di divenire, per ciò, un tantino lo zimbello della società torinese.

Il Duca però, alla sua maniera, l’amava e la stimava, e come a compenso delle sue scappate, l’aveva iniziata, si può dire, al governo; non avendo egli un gran gusto per gli affari di Stato, e piacendogli che qualcuno gliene alleviasse il peso. Aveva poi una tenerezza immensa, quasi eccessiva, per il figlio, e questa, come la maggior parte degli eccessi, doveva pur troppo riuscirgli fatale. Vittorio Amedeo, vivace e petulante, montava spesso a cavallo sotto gli occhi di suo padre, e proprio il martedì 4 giugno 1675, ritornando Carlo Emanuele dal giro di circonvallazione della capitale, da lui ampliata, fu talmente spaventato vedendo il principino, per un incidente qualunque, cadere di sella, che si sentì colpito dai brividi di una feb-