Pagina:Gemme d'arti italiane - Anno I, Carpano, 1845.djvu/136

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Non cercare nelle scene che ti raffigurano il lieto raggio del sole; per essi il verno è l’immagine dell’inerzia, della desolazione, della morte, laddove il sole, è la vampa, è l’anima di tutte cose, la vita del creato. Gira intorno lo sguardo:

tutto è solitudine; la campagna è un vasto deserto, le piante brulle curvano i rami sotto il peso della neve; i piccoli laghi, che soavemente s’increspavano ad ogni più lieve soffio di vento, giacciono immobili come percossi da una maligna potenza che tolga a tutte cose il moto e la vita: i fiumi travolgono masse di ghiaccio galleggianti. Dov’è la gioconda varietà de’ colli? Dove la voluttuosa ombrìa de’ boschi, cara ai sospiri della sventura, più cara ai misteri dell’amore? Tutto è scomparso:

se appare qua e là alcun essere vivente porta anch’esso l’impronta della mestizia. Qui vedi una vecchierella coperta di laceri panni che, ristretta nella persona, studia il passo incamminandosi verso un miserabile tugurio: là un povero taglialegne, scarno, sparuto, cadente, coi capelli canuti, quale appunto si suol dipingere il verno stesso, che, distendendo bramosamente le palme, curvasi sovra un gran fuoco acceso a piè d’una quercia antica, e quel fuoco è l’unico elemento che mostri aver vita in mezzo a quella morta natura; ovvero un mendico che assiderato, rifinito di forze, sotto un cielo rannuvolato, s’abbandona sovra un sasso, guardando intorno se mai scopra alcuno che pietoso lo guidi a qualche casolare ospitale.

Che se la scena è fra monti ed alte giogaje, queste immagini sono un nulla a petto di quelle che allora la tela li rappresenta. Nude roccie, irte, pendenti sopra spaventevoli precipizj, fiori, pini, abeti spezzati, travolti fra le ammonticchiate nevi, e in esse capanne