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Miniato al Monte, co’ cipressi e la torre, segnata dai cannoni dell’Orange, quando spiravano le franchigie di Firenze. Or volgi l’occhio a sinistra, e sopra le case vedi grandeggiare alta, severa, orlata di merli, la torre di Palazzo Vecchio vigorosa memoria di passate generazioni, ed altre torri e loggie di storici palazzi, tra cui a capo al ponte, ti sta quel de’ Feroni, che poterono i tempi mutare in placida ed agiata dimora, ma non togliergli quello, datogli da Arnolfo, fiero aspetto di castello, eretto a foggia d’un gran dado di ferrigne pietre. Se poi rimanendo sul ponte stesso di Santa Trinita, ti rivolgi della persona, e guardi a seconda dell’acqua, eccoti di prospetto altro ponte, quello alla Carraja. A manca di esso tondeggia aerea la cupola di Santo Spirito, e si disegnano all’orizzonte più fuggenti le colline, la curva de’ quali piegandosi lontana, pare accenni al pian discosto della marina. E que’ colli, nella cui ampia corona siede la graziosa città, vedi amorevolmente pendenti, toccantisi con belle, estese e sinuose
linee, e scorgi dominare in essi il verde pallido dell’ulivo, tra cui spiccano le tante ville, non abbaglianti per bianchezza come avviene al mezzodì d’Italia, ma nette all’occhio co’ giardini loro e i cipressi bruni allato. Di quelle ville, tante ne sostengono i colli ver Pistoja, che t’assumono aspetto d’una nevicata.
Il ponte di Santa Trinita, posto com’è di mezzo cavalcando l’Arno, fra ponte Vecchio e il ponte alla Carraja, quando Appenino versa linfe abbondanti, sembra dividere il fiume in due gran vasche, cui fanno sponda i celebrati lungarni. Quivi è la parte vitale, l’anima della fiorita città, quivi si specchia più ridente il poetico cielo d’Italia; e quivi versarono la loro limpida luce tanti