Pagina:Gerusalemme liberata II.djvu/151

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CANTO DECIMOQUINTO. 131

XXIII.


     Quattro volte era apparso il Sol nell’Orto,
Dacchè la nave si spiccò dal lito:
Nè mai (ch’uopo non fu) s’accolse in porto,
180E tanto del cammino ha già fornito.
Or entra nello stretto, e passa il corto
Varco, e s’ingolfa in pelago infinito.
Se il mar quì è tanto, ove il terreno il serra,
184Che fia colà dov’egli ha in sen la terra?

XXIV.


     Più non si mostra omai tra gli alti flutti
La fertil Gade, e l’altre due vicine.
Fuggite son le terre, e i lidi tutti:
188Dell’onda il Ciel, del Ciel l’onda è confine.
Diceva Ubaldo allor: tu che condutti
N’hai, donna, in questo mar che non ha fine;
Dì, s’altri mai quì giunse: e se più innante
192Nel mondo, ove corriamo, have abitante.

XXV.


     Risponde: Ercole poich’uccisi i mostri
Ebbe di Libia, e del paese Ispano:
E tutti scorsi, e vinti i lidi vostri,
196Non osò di tentar l’alto Oceáno.
Segnò le mete, e in troppo brevi chiostri
L’ardir ristrinse dell’ingegno umano.
Ma quei segni sprezzò ch’egli prescrisse,
200Di veder vago e di sapere, Ulisse.