Pagina:Ghislanzoni - Abrakadabra, Milano, Brigola, 1884.djvu/183

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tingervi il coraggio e la forza di respingere gli attacchi. Ma l’Albani era troppo sicuro di sè stesso per discendere a questo esame. Il veto del Gran Proposto, per tutt’altri che per lui, poteva essere considerato un atto di accusa; ma egli, per quella logica di sospetti e di diffidenze che era stata il supplizio de’ suoi giorni di esilio, per quella divinazione del presentimento che rare volte fallisce, per gl’impeti sdegnosi del suo nobile cuore, non rimase perplesso un istante. Quelle linee fatali scritte dal Gran Proposto erano la dissimulazione del codardo, la calunnia, il tradimento, il principio di un assassinio legale.

I pugni serrati alla sbarra del leggio, le labbra livide e spumanti, l’Albani rimase alcun tempo nella immobilità contratta del forte che vuoi resistere agli impeti della passione.

Orribili disegni gli attraversavano la mente. I truci lampi del suo sguardo rivelavano l’anelito della vendetta. Quell’uomo era il nembo che si condensa per esplodere terribilmente.

E forse, nell’impeto, della disperazione, l’Albani avrebbe tutto dimenticato, il suo amore, la sua donna, i suoi doveri verso la società, i mezzi più pronti e più validi che la legge istessa gli offriva per ottenere giustizia; se a scuoterlo dal cupo letargo non fosse intervenuta una voce piena di dolcezza, una voce santa come le aspirazioni di Dio, cui quel carattere indomito e procelloso non aveva mai resistito.

Era la voce del suo compagno di espiazione, di lui che lo aveva sorretto per cinque anni sul cammino del dolore; del giovine levita che portava il nome di Fratello Consolatore.

La parola, l’aspetto di quell’amico produssero nell’anima dell’Albani una reazione benefica.

— Tu qui, fratello! — esclamò l’Albani volgendosi al Levita, e gettandogli al collo le braccia.