Pagina:Gibbon - Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano III.djvu/19

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dell'impero romano cap xvi. 13

ma pericolosa imputazione d’empietà. La malizia ed il pregiudizio si univano a rappresentare i Cristiani come una società di atei, che avendo audacissimamente attaccato le religiose costituzioni dell’Impero, meritato avevano i più severi castighi de’ magistrati civili. Nella confessione, che facevano di loro fede, gloriavansi di essersi liberati da qualunque sorta di superstizione ricevuta in qualsivoglia parte del globo dal vario genio del Politeismo; non era però ugualmente chiaro qual divinità, o quale specie di culto sostituito avessero agli Dei ed a’ tempj dell’antichità. La pura e sublime idea, ch’essi avevano dell’Ente supremo, sfuggiva dal grossolano concepimento del volgo Pagano, che non sapeva immaginare un Dio spirituale e solitario, il quale non si rappresentava sotto alcuna figura corporea o segno visibile, nè si adorava con la solita pompa di libazioni e di feste, di altari e di sacrifizi1. I Sapienti della Grecia e di Roma, che innalzato avevano le loro menti alla contemplazione dell’esistenza e degli attributi della prima Causa, per ragione o per vanità eran portati a riservare a se stessi o a’ loro scelti discepoli il privilegio di questa filosofica devozione2. Essi erano ben lontani dall’ammet-

  1. Cur nullas aras habent? templa nulla? nulla nota simulacra?.. unde autem vel quis ille, aut ubi, Deus unicus, solitarius, destitutus? Minuc. Felix c. 10. L’interlocutore Pagano fa una distinzione in favor de’ Giudei, che una volta ebbero un tempio, altari, vittime, ec.
  2. Egli è difficile (dice Platone) di acquistare, e pericoloso il pubblicare la cognizione del vero Dio. Vedasi la Teologia de’ Filosofi nella traduzione, che ha fatto in Francese l’Abate d’Olivet dell’opera di Tullio De natura Deorum Tom. 1. pag. 275.