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dell'impero romano cap xlviii. |
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credere, osservando il numero de’ suoi grand’uomini, che la Repubblica d’Atene contasse più milioni d’abitanti. E pure il suo territorio, con quello di Sparta e dei loro alleati, non eccede la grandezza d’una provincia di Francia o d’Inghilterra, quantunque di mediocre estensione; ma dopo le vittorie di Salamina e Platea quelle picciole Repubbliche prendono nella nostra fantasia l’ampiezza gigantesca dell’Asia conculcata dai Greci con piede vittorioso. Per converso i sudditi dell’Impero bizantino, che prendeano e disonoravano i nomi di Greci e di Romani, offrono una tetra uniformità di vizi abbietti, spogli della scusa che meritano le dolci passioni dell’umanità, e senza il vigore e la pompa dei delitti memorandi. Poteano gli uomini liberi dell’antichità ripetere con generoso entusiasmo la sentenza d’Omero, che „uno schiavo nel primo giorno di schiavitù perde la metà delle virtù umane„. E sì che il poeta non conosceva altra schiavitù che la civile e domestica, nè poteva prevedere, che l’altra metà dei pregi del genere umano verrebbe un giorno annichilita da quel despotismo spirituale che inceppa le azioni, ed anche i pensieri del devoto prostrato nella polvere. I successori d’Eraclio fiaccarono i Greci con questo doppio giogo; i vizi dei sudditi, secondo una legge dell’eterna Giustizia, digradarono il tiranno, e a gran pena colle più esatte indagini sul trono, nei campi, e nelle scuole si giunge a dissotterrar qualche nome degno d’esser tolto all’obblìo. Alla povertà del subbietto non ripara l’abilità o la varietà delle tinte, impiegata dai pittori storici. I quattro primi secoli d’un intervallo di ottocento anni sono rimasti per noi nelle tenebre di rado interrotte