Pagina:Gibbon - Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano IX.djvu/163

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dell'impero romano cap xlviii. 157

la misura de’ suoi delitti, e quella della loro pazienza. Leonzio, Generale di grido, avea per più di tre anni languito in un carcere con vari patrizi delle più nobili e degne famiglie; ad un tratto il sovrano lo liberò per dargli il governo della Grecia: questa grazia, conceduta ad un uomo offeso, annunziava disprezzo più che fiducia; mentre i suoi amici l’accompagnavano al porto, ove doveva imbarcarsi, disse loro sospirando, che si ornava la vittima pel sagrifizio, che sarebbe presto seguito dalla morte: ebbero quelli coraggio a rispondergli che forse la gloria e l’Impero sarebbero il guiderdone d’un tentativo generoso; che tutte le classi dello Stato abborrivano il regno d’un mostro, che dugentomila patriotti non aspettavan altro che la voce d’un Capitano. Prescelsero la notte per adempiere la loro liberazione; e ne’ primi sforzi de’ cospiratori, fu svenato il prefetto della capitale, e forzate le prigioni; per tutte le strade gridavano gli emissari di Leonzio: „Cristiani, a Santa Sofia„. Il testo eletto dal Patriarca „ecco il giorno del Signore„ fu l’annunzio d’una predica, che fini d’infiammare gli spiriti; il perchè uscendo dalla Chiesa indicò al popolo un’altra adunanza da tenersi nell’Ippodromo. Giustiniano, pel quale non s’era sguainata una sola spada, fu trascinato davanti a quei Giudici furibondi, i quali domandarono, che fosse subitamente punito di morte. Leonzio, già vestito della porpora, vide con occhio di compassione il figlio del suo benefattore, il rampollo di tanti Imperatori, boccone innanzi a sè. Perdonò la vita a Giustiniano; ma gli fu tagliato, benchè imperfettamente, il naso, e forse la lingua. La flessibilità dell’idioma greco gli diede immediatamente