Pagina:Gibbon - Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano IX.djvu/239

Da Wikisource.

dell'impero romano cap xlviii. 233

uno stanzino oscuro e dimenticato; egli vi si appiattò con quel che gli restava di provvisioni; dopo avere accuratamente rimessi al posto i mattoni, e tolto ogni vestigio della sua ritirata. Le guardie, che all’ora solita vennero a far la visita, rimasero maravigliate del silenzio e della solitudine della prigione, e sparsero voce che Andronico era fuggito senza che se ne sapesse il come. Allora furon chiuse le porte del palazzo e della città; andò l’ordine il più rigoroso alle province di assicurarsi della persona del fuggiasco, e sua moglie, pel sospetto che ne avesse favorita la fuga, e alla quale se ne fece vilmente un delitto, fu imprigionata nella torre medesima. Venuta la notte, le parve di vedere uno spettro; riconobbe il marito; si divisero fra loro i viveri, e da questi segreti intertenimenti, che mitigavano le pene della lor prigionia, ebbe origine un figlio. A poco a poco si rilassò la vigilanza dei guardiani commessi alla custodia d’una donna, e Andronico era in piena libertà quando fu scoperto e ricondotto a Costantinopoli, carico di doppia catena. Trovò egli il modo e il momento di fuggire dalla sua prigione. Un giovanetto che lo serviva seppe ubbriacare le guardie, e prendere colla cera l’impronto della chiavi: gli amici di Andronico gli mandarono in fondo ad un barile le chiavi false con un mazzo di corde. Il prigioniere, con gran coraggio e destrezza, se ne valse, aperse le porte, calò giù dalla torre, stette una giornata intera nascosto entro una siepe, e nella notte scalò le mura del giardino del palazzo. Quivi lo aspettava un battello; corse egli a casa sua, abbracciò i figli, si liberò dei ferri, e montando un agile palafreno, si diresse rapidamente verso le rive del Danubio. In