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leria e della infanteria, due grand’Uffiziali del palazzo e trentacinque Tribuni, e la morte di Sebastiano mostrò al Mondo che se egli fu l’autore, fu pure la vittima della pubblica calamità. Fu distrutto per più di due terzi l’esercito Romano, e le tenebre della notte vennero tenute per molto propizie, come quelle che servirono a coprire la fuga della moltitudine, ed a proteggere la più ordinata ritratta di Vittore e di Ricomero, che soli, in mezzo alla generale costernazione, mantennero il vantaggio di un tranquillo valore e di una regolar disciplina1.

Mentre erano ancora fresche nelle menti degli uomini le impressioni del dolore e dello spavento, l’oratore più celebre di quel tempo compose l’orazione funebre d’un esercito superato e d’un odioso Principe, il trono del quale era già stato occupato da uno straniero. „Non mancan persone (dice l’ingenuo Libanio) che incolpano la prudenza dell’Imperatore, o che attribuiscono la pubblica disgrazia al difetto di coraggio e di disciplina nelle truppe. Quanto a me, io venero la memoria delle lor precedenti azioni; venero la gloriosa morte, che valorosamente soffrirono, stando salde e combattendo nei loro posti: venero il campo di battaglia, asperso del sangue loro e di quello dei Barbari. Questi onorevoli segni sono già stati cancellati dalle piogge; ma i

  1. Abbiam preso qualche tenue lume da Girolamo (T. I. p. 26, e in Cron. p. 188), da Vittore (in Epitom.), da Orosio (l. VII. c. 33. p. 554), da Giornandes (c. 27), da Zosimo (l. IV. p. 230), da Socrate (l. IV. c. 38), da Sozomeno (l. IV. c. 40), da Idazio (in Cron.). Ma la testimonianza di essi tutti uniti insieme, paragonata col solo Ammiano, è debole ed insufficiente.