Pagina:Gibbon - Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano XIII.djvu/17

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dell'impero romano cap. lxvii. 11

glianze generali di una popolazione malcontenta e ferita nel più vivo de’ suoi sentimenti, nello zelo religioso. Dopo i due anni che l’assenza della Corte era durata, il fanatismo fermentò nell’anarchia di una Capitale priva di Capi civili ed ecclesiastici; i turbolenti frati, che governavano la coscienza delle femmine e de’ devoti, predicavano ai lor discepoli l’odio contro ai Latini, come sentimento primario della natura e della religione. Innanzi di partire per l’Italia, l’Imperatore avea fatto sperare ai suoi sudditi un pronto e possente soccorso; mentre il Clero, altero della sua purità ortodossa, o della sua scienza, riprometteasi, e aveva assicurata al proprio gregge una facile vittoria sui ciechi pastori dell’Occidente. Allorchè si trovarono delusi in questa doppia speranza, i Greci si abbandonarono alla indegnazione; i Prelati, che avevano sottoscritto, sentirono ridestarsi i rimorsi della loro coscienza: il momento del disinganno era venuto; e maggior soggetto aveano di paventare gli effetti del pubblico sdegno, che di sperare la protezione del Papa, o dell’Imperatore. Lungi dal profferire un accento di scusa sulla condotta che tennero, confessarono umilmente la loro debolezza e il lor pentimento, implorando la misericordia di Dio e de’ lor compatriotti. A quelli che in tuono di rimprovero lor domandavano qual fosse la conclusione, quali i vantaggi riportati dal Concilio d’Italia, rispondeano con lagrime e con sospiri, „noi abbiam composta una nuova Fede, abbiamo barattata la pietà nell’empietà, abbiurato l’immacolato sagrifizio, siam divenuti azzimiti„. Chiamavansi azzimiti coloro che si comunicavano con pane azzimo, o senza lievito, e qui potrei essere costretto a ritrattare, o a schiarir