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libro secondo - capitolo ottavo | 137 |
cognizioni, s’inducono per vanitá o leggerezza a sciorinar di mano in mano i loro piccoli acquisti, estinguono in se stessi la vena dell’invenzione e si tolgono il modo di produrre col tempo opere grandi e non periture.
Attendendo insieme cosi a procacciarvi e maturare le idee, come all’arte difficile di esprimerle acconciamente, terminerete il lungo e funesto divorzio delle cose e delle parole. La parola è di sommo rilievo, imperocché «il pensiero dell’uomo si aggira in se stesso, laddove la favella abbraccia il comune; onde l’eloquenza saputa è migliore dell’acutezza infaconda»1. Ma d’altra parte la facondia senza il sapere non ha alcun valore. «Niuna stabilitá hanno le scritture che non sieno fondate sulla scienza di coloro che scrivono, e se ne vanno come piume alle aure del favor popolare e della grazia dei principi, che passa come fiore di primavera»2. Né le cose vere e utili profittano alla scienza se non sono anco pellegrine e profonde, ché queste sole l’accrescono e la rendono proporzionata ai tempi. La pellegrinitá non consiste, come oggi si crede da molti, nel contraddire e distruggere l’antico, ma nel farne emergere il nuovo, che vi giace, per cosi dire, come in un sacrario3 e vi si occulta, secondo Dante, come in un’ascosaglia4, onde vuol esser tratto e messo in luce per opera dell’ingegno. Per tal modo le tradizioni e i progressi, il mantenere e l’innovare s’intrecciano e si mischiano insieme nelle lettere e nelle dottrine, come nel giro universale della civiltá e nell’arte di reggere gli Stati e le nazioni.
E però i giovani abbisognano nel pensare e nell’operare del senno degli attempati. La gioventú ha convenienza colla plebe e coll’etá eroica delle nazioni ; e come il genio adolescente al barbarico, cosi il puerile al salvatico rassomiglia. La plebe e la barbarie (dico quella che nasce da rozzezza, non quella