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satire 55


SATIRA TERZA.

LA PLEBE.

Questa impudente schiatta sol s’indraca
Contro a chi fugge; ed a chi mostra il dente
Ovver la borsa, come agnel si placa.


Dante, Parad., C. 16.



«La gente nuova, e i subiti guadagni»
Che in cocchio fan seder chi dietro stette,
Chieggon ch’io qui co’ Grandi l’accompagni.
E giusto è ben, che qual più in su si mette
Visto sia primo, e che Ragion lo pesi:
E giusto è pur, che chi la fa l’aspette.
Ti chiamavi Giovanni a pochi mesi,
Nè motto mai facevi del casato:
Asciutto asciutto ognor Giovanni io intesi.
Un migliajo di scudi furfantato
Vi ti ha imbastito il De che meglio suona;
Sei Giovan De-Giovanni diventato.
L’esser senza antenati si perdona;
Ch’ogni uom del padre suo nascendo figlio,
Nobiltà nè si toglie nè si dona:
Ma il Filosofo stesso anco può, il ciglio
Aguzzando, scrutar di quai parenti
Nato sii: che il Leon non è il Coniglio.
Liberi, puri, agricoltori abbienti
Procreavanti ardito in lieta terra,
Lungi al par dai molti agj e dagli stenti:
Uom tu sei; chiaro farti, il può la guerra,
L’aratro stesso, anco il ben colto ingegno:
Ergi intera la fronte, ogni arte afferra.
Ma, sei tu sorto da principio indegno
Tra brutture di plebe cittadina?
Feccia di feccia sei, d’infamia pregno.
Tu, d’ogni vizio fetida sentina;
Tu, più reo di quel nobile che t’ebbe
Servo in camera o in stalla od in cucina.