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la frusta teatrale 23


stessa del D’Amico, che, per il suo temperamento pascoliano, resta spesso fuori del mondo riflesso della critica, in uno stato d’animo pochissimo chiaro, anzi addirittura inespresso di ammirazione e di commozione di fronte all’arte: i moderni mistici del sentimento sono felici di chiamare buon gusto questo stato di inebbriata incoscienza, che nasconde soltanto un vecchio momento di irrazionalità dello spirito o una crisi di fiducia non troppo prudente. Il D’Amico è tutto immerso in questa crisi mistica per un vizio di cultura filosofica: i suoi giudizi più veri sono sempre veri a metà, perchè non si fondano su un’arguzia di giudizio abbastanza rigorosa. Chi lo definisse lettore di buon gusto dovrebbe limitare poi il facile complimento parlando di una critica che si ferma all’impressione, che accarezza una lieve armonia fra la poesia che legge e la sua interiore predisposizione e intorno a tale armonia vien discorrendo senza sistema e senza agilità, noncurante di razionali mediazioni e di quelle ascetiche conquiste di indipendenza affettiva che sono un poco l’istinto del critico vero.

I saggi del D’Amico muovono tutti dal concetto di interpretazione scenica e ricercano i rapporti tra autore e attore nella rappresentazione teatrale. Ma per giustificare quella che il D’Amico chiama interpretazione scenica (e che giustamente egli crede degna di accurato esame) non si direbbe che sia indispensabile tanto ardore polemico contro le nuove estetiche. Non l’arte drammatica, ma l’arte senz’altro parrebbe, per pacifico e natural convincimento, comunicabile; ma questa comunicazione non è qualcosa che si aggiunga dall’interno pensando a qualche cosa di esterno, è invece il fatto stesso espressivo.