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Pagina:Gogol - Taras Bul'ba, traduzione di Nicola Festa, Mondadori, Milano, 1932.djvu/274

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GOGOL

tanto che, stando ad ascoltare, si finiva con l’udire abbastanza chiaro: «Mamma mia, ho freddo!». So bene che a molti riesce sgradito quel suono; ma a me piace assai; e se qualche volta mi capita qui di udire il cigolío di una porta, allora improvvisamente io sento un odore di campagna; mi pare di essere in una stanzetta bassa, rischiarata da una candela sopra un vecchio candeliere, con la cena già in tavola; una cupa notte di maggio occhieggia dal giardino, attraverso la finestra spalancata, sulla tavola già coperta dalla tovaglia; un usignolo spande coi suoi gorgheggi un’onda di calore sul giardino, sulla casa e sul fiume lontano; sento il pauroso fruscío dei rami... e Dio mio! quale lunga fila di ricordi allora mi viene davanti!

Le sedie nella camera erano di legno, pesanti, di quelle che ordinariamente contraddistinguono i tempi antichi; tutte avevano alte spalliere lavorate al tornio e lasciate grezze, senza vernice e senza colore; non erano neppure ricoperte di stoffa, e somigliavano un poco a quelle sedie su cui ancora oggi siedono gli arcipreti. Tavolini triangolari negli angoli, quadrangolari avanti al divano e ad uno specchio racchiuso da una sottile cornice dorata, con foglie intagliate su cui le mosche avevano seminato un’infinità di punti neri; avanti al divano un tappeto istoria-


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