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capitolo xxxvi 99


Nell’estate la piazza di San Marco, e i suoi contorni sono frequentati la notte come il giorno; ed i caffè sono sempre pieni di persone allegre, e di uomini e donne di ogni sorte. Si canta per le piazze, per le strade, nei canali; cantano i mercanti smerciando le loro mercanzie, cantano i lavoranti nell’escire dai loro lavori, canta il gondoliere stando ad aspettare il suo padrone. Il carattere della nazione è l’allegria; e quello della lingua veneziana, la lepidezza. Nel piacevole incanto di riveder la mia patria, che mi pareva sempre più straordinaria e più dilettevole, tornai al mio nuovo quartiere, ove Imer mi aspettava; mi annunziò che sarebbe andato il giorno dopo dal signor Grimani, proprietario del teatro, che mi avrebbe condotto seco, e presentato a sua eccellenza, quando non avessi avuto altri impegni. Siccome ero libero, accettai la proposizione, e andammo insieme. Il signor Grimani era l’uomo più garbato del mondo; non aveva quell’incomoda alterezza, che fa torto ai grandi, mentre umilia gl’inferiori. Illustre per nascita, stimato per le sue doti intellettuali, avea solo bisogno d’essere amato, e la sua dolcezza gli cattivava tutti gli animi. Mi accolse pertanto con bontà, mi persuase a lavorare per la Compagnia che tratteneva a suo servizio; e per darmi maggiore coraggio mi fece sperare, che essendo egli proprietario anche del teatro di San Giovan Crisostomo e impresario della grand’Opera, avrebbe procurato di impiegarmi e interessarmi in questo spettacolo. Contentissimo di sua eccellenza Grimani, non meno che dei buoni uffizi che mi rendeva allora Imer con lui, ad altro io non pensai che a meritare i suffragi del pubblico. La prima rappresentazione del Belisario era stata fissata per santa Caterina, tempo in cui terminano le vacanze della curia, ed in cui tornan tutti dalla campagna; si facevano frattanto le prove, ora della mia tragicommedia, ora del mio intermezzo; e siccome le mie occupazioni non erano di gran rilievo, preparai qualche cosa di nuovo per il carnovale.

Intrapresi la composizione di una tragedia intitolata Rosimonda, e di un altro intermezzo intitolato la Birba. Per la rappresentazione seria, era destinata la Rosimonda del Muti, cattivo romanzo del secolo passato che mi aveva suggerito l’argomento ed avevo modellata l’altra sull’idea dei saltimbanchi della piazza di San Marco, dei quali avevo già bene studiato il linguaggio, le ridicolezze, le caricature, e le furberie. I tratti comici, da me usati negl’intermezzi, erano semi che io gettava nel mio campo per raccoglierne un giorno frutti maturi e piacevoli.

CAPITOLO XXXVI.

Prima rappresentazione del Belisario. — Suo buon successo. — Rappresentazione della Pupilla. — Quella di Rosmonda. — Quella della Birba. — Termine dei teatri.

Finalmente il dì 24 novembre 1734 andò per la prima volta in scena il mio Belisario. Era questo il mio primo passo, e non poteva riuscire nè più bello, nè più soddisfacente per me. La rappresentazione fu ascoltata con un silenzio straordinario, e quasi ignoto negli spettacoli d’Italia. Il pubblico assuefatto allo strepito, rompeva il freno fra atto e atto; e con gridi di gioia, battimani, e segni ripetuti a vicenda, ora dalla platea, ora dai palchetti, si profondevano all’autore e agli attori gli applausi più strepitosi. Alla