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capitolo xxxvii 103

alcuni giorni che io era a Padova, il direttore mi parlò delle nuove rappresentazioni che bisognava preparare per Venezia. La signora Collucci, soprannominata la Romana, era la prima amorosa della compagnia a vicenda con la Bastona, e malgrado i suoi cinquantanni, che l’abbigliatura ed il liscio non potevano nascondere, aveva un suono di voce così chiaro e dolce, una pronunzia talmente giusta, e tante grazie così schiette e naturali, che pareva ancora nella maggior freschezza della sua età. La signora Collucci possedeva una tragedia del Pariati intitolata Griselda, ed era appunto la sua rappresentazione favorita; ma essendo in prosa, fui incaricato di metterla in versi. Nulla per me di più facile, giacchè mi ero occupato di questo stesso soggetto in Venezia, e la Griselda del Pariati altro in sostanza non era, che l’opera da lui stesso composta in compagnia di Apostolo Zeno. Mi accinsi con piacere a contentar la Romana, non seguitando con precisione gli autori del dramma, anzi facendovi molte variazioni; vi aggiunsi inclusive il padre di Griselda, padre virtuoso, che aveva veduto salire al trono senz’orgoglio sua figlia, e la vedeva parimente scendere dal medesimo senza il menomo rincrescimento. Immaginai questo nuovo personaggio, perchè avesse parte anche il mio amico Casali. Quest’episodio diede alla tragedia un’aria di novità, la rese più piacevole, e mi fece passare per autore della rappresentazione. Nell’edizione delle mie opere fatta a Torino nel 1777 da Guibert e Orgeas, questa Griselda si trova stampata come una composizione di mia pertinenza; ma siccome ho in sommo orrore i plagi, protesto adesso solennemente di non esserne stato l’autore.

Avevano i miei comici compito in Padova il numero delle rappresentazioni convenute, e andavano facendo i loro fagotti per passare a Udine nel Friuli veneziano.

Imer mi fece la proposta di condurmi seco. Non avendo più da temere cosa alcuna da parte dell’acquacedrataia, che era già maritata, condiscesi a seguitare la compagnia, non viaggiando però col direttore. Feci a lui le mie scuse, e partii in una buona vettura con la signorina Ferramonti ed il buon uomo di suo marito. Le mie opere furono in Udine applauditissime, ed avendovi già la preoccupazione degli Udinesi in favore, fu trovato l’autore del Quaresimale poetico anche poeta drammatico, a parer loro, assai buono. Quell’acquacedrataia, da me non mai amata, bensì conosciuta e frequentata, e che terminò col mettermi in grandissimo travaglio, seppe che io era in Udine, e volle vedermi. Era maritata a un uomo della sua condizione, e mi scrisse una lettera molto astuta e allettativa. Andai a trovarla a un’ora fissata, e scorsi in lei una gran mutazione; il nostro trattenimento non fu lungo, nè avendo voglia di sacrificar per lei le mie nuove inclinazioni, la rividi una seconda volta e non più. D’altra parte troppo mi stavano a cuore le mie occupazioni teatrali, e desideravo far qualche cosa di straordinario all’apertura del teatro della capitale. Ruminai parecchie idee, ne comunicai alcune al direttore, ed ecco quella sulla quale ci fermammo, ed a cui diedi esecuzione. Era un divertimento diviso in tre parti diverse, che appunto equivalevano ai tre atti di una rappresentazione ordinaria. La prima parte consisteva in un’assemblea letteraria; tutti gli attori all’alzar del sipario si trovavano a sedere, e distribuiti su palco scenico vestiti alla paesana. Il direttore dava principio con un discorso sopra la commedia, e su i doveri dei comici, e terminava col fare al pubblico un complimento. Gli attori e le attrici recitavano uno per volta strofe, sonetti, ma-