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CAPITOLO XLIV.

Preparativi per il mio viaggio. — Pretensioni di mio fratello. — Lettera da Genova. — Morte della Baccherini. — Nuova commissione in Venezia. — Statira, opera seria. — Brutto regalo di mio fratello. — Sottigliezze di un falso capitano. — Mia grande sciagura. — Partenza da Venezia.

Partiti i comici, rimasi isolato, poichè nella condizione spiacevole in cui ero, qualunque altra conversazione mi annoiava. Mi occupavo adunque soltanto del mio viaggio: mia madre, la zia, non avevano bisogno di me, la moglie mi seguitava, il solo fratello era a carico di tutti.

Aveva la più alta idea di sè stesso, e si maravigliava della mia maniera di pensare, perchè non secondavo punto i suoi sentimenti. Avrebbe, per esempio, preteso, che io lo avessi proposto a surrogarmi nell’impiego nel tempo della mia assenza da Venezia, ovvero che lo avessi mandato a Genova, per sollecitare i salarii del mio impiego: ma io non lo credevo atto a nessuna di codeste commissioni, e attendevo alle mie faccende, aspettando lettere da Genova per dare effetto all’idea propostami.

Giungono le lettere, mi si concede il domandato permesso, e si approva il sostituto: eccomi contento. Anderò a Modena per ripetere i pagamenti delle mie rendite; passerò a Genova a fare istanze per l’onorario della mia carica, ed assisterò alle prove della Donna di garbo: la Baccherini forse avrà bisogno di me, o almeno le sarà caro rivedermi. Le attrattive di questa amabile attrice avvaloravano ancor più le mie premure, e mi congratulavo meco stesso vedendola sostenere una parte di tanto rilievo nella mia rappresentazione.

Ma, oh cielo! il fratello della signora Baccherini era ancora in Venezia. Viene a casa mia: mi si presenta nella maggior costernazione, e senza proferir parola mi dà a leggere una lettera proveniente da Genova: sua sorella era morta. Che fiero colpo per me! non era l’amante che piangeva la sua bella, ma l’autore che dolevasi della perdita di un’eccellente attrice. Mi vide addolorato anche mia moglie, ma essa era abbastanza ragionevole per uniformarsi alle mie idee. Dopo questo avvenimento non mutai pensiero, fui bensì meno sollecitato a partire, anzi credetti di poter differire ancora la mia partenza. Una società di nobili veneziani aveva preso a fitto per cinque anni il teatro di San Giovanni Crisostomo, e mi aveva chiesto un’opera per la fiera dell’Ascensione. Avevo ricusato di soddisfarla, ma divenuto padrone del mio tempo, accettai la commissione e terminai in pochi giorni un’opera intitolata Statira, e che già avevo nel mio portafogli. Assistei da me stesso alle prove ed all’esecuzione di questo dramma; profittai dei diritti di autore, ed oltre a ciò di una straordinaria ricompensa datami da quelli impresarii generosi. Avevo dunque motivo di esser contento per aver prolungato il mio soggiorno in Venezia; ma pagai ben caro in seguito un tal piacere, ed a mio fratello soltanto dovetti l’obbligo del travaglio crudele in cui mi trovai.

Un giorno egli entra in mia casa a due ore dopo il mezzodì, e picchia col bastone alla porta della mia stanza: apro, lo vedo col cappello sugli occhi, con volto acceso, e guardatura scintillante.