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capitolo xlviii 131


di stare un poco in pace; avevo danaro, non avevo nulla da fare, ed ero felice. Rimini per tutti quelli che lo avevan veduto nel tempo del soggiorno degli Spagnuoli, non si riconosceva: vi erano divertimenti di ogni sorta: balli, accademie, giuochi pubblici, conversazioni allegre, gioventù vivace; vi si trovavano passatempi adattati a qualunque stato e carattere. In quanto a me, amavo mia moglie, dividevo con lei i piaceri, ed ella mi seguiva dovunque. Nella sola casa della mia comare ricusò di venir meco; non che essa mi impedisse di andarvi, ma quell’attrice non le andava a genio, e dei gusti non si può disputare. Finalmente la mia povera comare fu obbligata a partirsene. Gli uffiziali tedeschi volevano nel carnevale l’opera, e i comici furono costretti a cedere il posto. Il conte Novati milanese, luogotenente dell’esercito delle loro maestà imperiali, s’era preso il carico del nuovo spettacolo e mi fece l’onore di propormene la direzione. L’accettai con piacere, nè ebbi luogo di pentirmene, facendomi godere la generosità di quel signore, vantaggi che io non avrei mai potuto aspettarmi. Andava dunque di bene in meglio: la fortuna a mio riguardo aveva voltato faccia, ed effettivamente dopo l’ultima disgrazia della Cattolica e quella del mio ritorno a Rimini, non ho più sostenuto quei colpi terribili, dai quali pareva sempre che io dovessi rimanere annientato. L’opera terminò col carnevale, e succedettero alle distrazioni divertevoli gli affari di politica e di guerra.

Al principio della quaresima il feld-inaresciallo austriaco richiamò tutte le truppe accantonate nella Romagna, ed io godei il piacevole colpo d’occhio di una rivista generale di quarantamila uomini. Era questo il segnale della partenza degli Austriaci; onde feci le mie dipartenze coll’amico Borsari, e quaranta giorni dopo non vi era più un Tedesco in quel paese, che oggi si chiama Romagna, e che al tempo degli Imperatori romani dicevasi Esarcato di Ravenna.

Io pure volevo partire: ma il viaggio di Genova essendo allora divenuto inutile per me, libero e padrone come io era della mia volontà, e sufficientemente provvisto di danaro, misi in esecuzione un altro mio antico disegno. Volevo veder la Toscana, volevo percorrerla ed abitarla per qualche tempo, abbisognandomi trattar familiarmente con i Fiorentini ed i Senesi, testi viventi della buona lingua italiana. Ne feci parte a mia moglie, e non le tacqui che questa strada ci avvicinava a Genova: essa parve contenta, e restò dunque deciso il viaggio per Firenze.

CAPITOLO XLVIII.

Mio arrivo a Firenze. — Alcune parole sopra questa città. — Mia gita a Siena. — Conoscenza del cavalier Perfetti e suo straordinario ingegno. — Conversazioni di Siena. — Viaggio a Volterra. — Veduta delle catacombe. — Rarità raccolte in quel paese e in Peccioli. — Mio arrivo a Pisa.

Non era ancora aperta nel 1742 la nuova strada che da Bologna conduce a Firenze; presentemente vi si va in un giorno, quando prima ne abbisognavano almeno due per attraversare quelle alte montagne tra le quali è racchiusa la Toscana. Non essendo dunque possibile evitare la cattiva strada, scelsi la più corta ed affidai le mie robe ad un vetturale. Si venne per la posta fino a Castrocaro; di là attraversammo a cavallo le alpi di San Benedetto, e final-