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12 | parte prima |
casa Commedia ed Opera; tutti i migliori attori, tutti i più rinomati musici stavano al suo comando, vi si concorreva da ogni parte. Io nacqui in questo strepito, in questa dovizia; poteva io disprezzar gli spettacoli, poteva io non amare l’allegria?
Mia madre mi diè alla luce quasi senza dolore, onde mi amò anche di più; ed io non detti in pianto, vedendo la luce per la prima volta. Questa quiete pareva manifestare fin d’allora il mio carattere pacifico, che non si è mai in seguito smentito.
Ero la gioia di casa. La mia governante diceva che io aveva ingegno. Mia madre prese cura di educarmi, ed il mio genitore quella di divertirmi. Fece fabbricare un teatro di marionette, le maneggiava in persona con tre o quattro suoi amici, e in età di quattr’anni trovai esser questo un delizioso divertimento.
Nel 1712 morì mio nonno. Un mal di petto acquistato in una partita di piacere lo condusse alla tomba in sei giorni. Mia nonna lo seguì poco dopo. Ecco l’istante di una mutazione terribile nella nostra famiglia, la quale precipitò tutt’a un tratto dalla comodità più felice nella mediocrità più disagiata.
Mio padre non ebbe l’educazione che gli si conveniva. Non gli mancava ingegno, ma non si era avuta bastantemente cura di lui. Non potè mantenersi nell’impiego del padre, che un accorto Greco seppe togliergli. I beni liberi di Modena erano venduti, i beni di sostituzione ipotecati. Non restavano che quelli di Venezia, che formavano la dote di mia madre e l’assegnamento di mia zia.
Per colmo di disgrazia, mia madre diede alla luce un secondo figlio, Giovanni Goldoni mio fratello. Mio padre era alle strette, e siccome non gradiva troppo di gemere sotto il peso di riflessioni ipocondriache, prese risoluzione di fare un viaggio a Roma per distrarsi. Dirò nel seguente capitolo ciò che vi fece, e quello che divenne. Ritorniamo frattanto a me, giacchè io sono l’eroe dell’opera.
Mia madre restò sola alla direzione della casa con sua sorella ed i due suoi figli. Collocò il minore in collegio; ed occupandosi di me unicamente, volle allevarmi sotto i suoi occhi. Ero docile, quieto, obbediente, e di quattro anni leggevo, scrivevo, e sapevo a mente il catechismo. Mi fu assegnato un maestro. Amavo molto i libri; imparavo con facilità la grammatica, i principii della geografia, e quelli dell’aritmetica. La mia lettura favorita però era quella degli autori comici. Ne era ben provvista la piccola biblioteca di mio padre; ne leggevo sempre qualcuno nei momenti di mia libertà, e ne trascrivevo ancora i pezzi che più mi davan piacere. Mia madre, purchè non mi trattenessi in puerili trastulli, non si prendeva la minima cura della scelta dei miei libri.
Fra gli autori comici che io leggeva e rileggeva spessissimo, il Cicognini era quello che preferivo ad ogni altro. Questo autor fiorentino, pochissimo conosciuto nella repubblica delle lettere, aveva fatte parecchie commedie d’intreccio, sparse di sentimenti noiosi, patetici e di facezie triviali: vi si trovava nulladimeno molto diletto, ed aveva l’arte di mantenere la sospensione, e di piacere con lo scioglimento. Presi per esso un’infinita propensione; lo studiai molto, ed ebbi nell’età di otto anni la temerità di abbozzare una commedia. Ne feci la prima confidenza alla governante, che la trovò piena di grazia; mia zia si burlò di me; mia madre mi sgridò, e mi abbracciò nell’istesso tempo, ed il mio precettore asserì, esservi spirito e buon senso oltre le forze della mia età. Il più singolare però fu, che mio compare, uomo in carica, e assai più ricco di danari che di cognizioni, non volle mai credere che quella fosse