Pagina:Goldoni - Memorie, Sonzogno, 1888.djvu/16

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14 parte prima

dodici, e per progressione successiva si può giungere fino al grado della perfezione.

Il mio genitore si determinò a volermi presso di sè; e questo fu un colpo di pugnale al cuore di mia madre. Ella vi resistè in principio, esitò in seguito, e terminò con acconsentirvi. Si presentò un’occasione la più favorevole del mondo. La nostra casa era in buonissima lega con quella del conte Rinalducci di Rimini, il quale con la moglie e con la figlia si trovava allora a Venezia. Il Padre abate Rinalducci, Benedettino e fratello del conte, doveva andare a Roma; prese l’impegno di passare per Perugia, e di condurmivi. Si fanno i fagotti, giunge il momento, bisogna partire. Non vi parlerò delle lacrime della mia tenera madre; chiunque abbia figli conosce momenti sì crudeli; io pure sentiva il più forte affetto per chi mi aveva portato nel seno, e mi aveva allevato ed accarezzato; ma l’idea di un viaggio è per un giovane una distrazione seducente.

Imbarcammo, il Padre Rinalducci ed io, al porto di Venezia in una specie di filuga denominata Peota Zuecchina, e veleggiammo per Rimini. Il mare non mi fece alcun male, anzi avevo un ottimo appetito. Sbarcammo all’imboccatura della Marecchia, ov’erano alcuni cavalli ad aspettarci. Mi vidi nel più grande imbroglio, quando mi si propose di salire a cavallo. Per le strade di Venezia non si vedono cavalli; vi sono due scuole di cavallerizza, ma ero troppo giovane per profittarne. Aveva visto nella mia fanciullezza i cavalli alla campagna, li temevo e non ardivo accostarmi. Le strade dell’Umbria, che dovevamo traversare essendo montuose, il cavallo era la vettura più comoda per i viandanti; bisognava adattarvisi. Mi si prende a traverso il corpo, e mi si getta sulla sella. Misericordia! stivali, sproni, briglie, frusta! Che fare di tutto ciò? Sbalzavo come un sacco: il reverendo padre rideva di tutto cuore, i servitori si burlavano di me, ed io pure ne rideva. A poco a poco mi addomesticai col mio puledretto, lo regalavo di pane e di frutte; divenne mio amico, ed in sei giorni di tempo arrivammo a Perugia.

Mio padre fu contento in vedermi, e molto più per vedermi in buon essere; gli dissi con un’aria d’importanza, che avevo fatto il mio viaggio a cavallo. M’applaudì sorridendo, e mi abbracciò teneramente. Trovai la nostra abitazione molto melanconica, e in una strada disagiosa e bruttissima. Pregai mio padre di sloggiare dalla medesima, ma non poteva: la casa era congiunta al palazzo Antinori, non pagava pigione, ed era vicinissimo alle monache di Santa Caterina, delle quali era medico.

Vidi la città di Perugia; fui condotto da mio padre stesso per tutto. Cominciò dalla suntuosa chiesa di San Lorenzo, ch’è la cattedrale del paese, ove si conserva e si espone l’anello con cui San Giuseppe sposò Maria Vergine. È una pietra di una trasparenza turchinetta, e d’un contorno molto cupo; tale a me parve: si dice però che questo anello cangi miracolosamente colore e forma ai vari occhi che vi si appressano. Mio padre mi fece osservar la fortezza, che Paolo III fece fabbricare al tempo che Perugia godeva di libertà repubblicana, sotto pretesto di regalare ai Perugini uno spedale per i malati ed i pellegrini. Vi fece introdurre dei cannoni dentro carri carichi di paglia; indi si gridò: Chi viva? Bisognò necessariamente rispondere: Paolo III. Osservai bellissimi palazzi, belle chiese, amene passeggiate; domandai se vi era sala da spettacolo, mi fu risposto di no; tanto peggio, io soggiunsi, non ci resterei per tutto l’oro del mondo. In capo a qualche giorno mio padre si determinò di farmi continuare gli studi; era giusto ed era