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Pagina:Goldoni - Memorie, Sonzogno, 1888.djvu/172

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170 parte seconda


questa abolizione, però basterà sempre il dire, per provarne la saviezza, che quei medesimi del Gran Consiglio che amavano il giuoco, diedero nonostante i loro voti per l’esecuzione del nuovo decreto. Non pretendo già di scusare con questo discorso la caduta della mia commedia, mendicando ragioni estranee; essa cadde, dunque era cattiva, e non è poco per me che di sedici commedie andasse a terra questa sola. Il pubblico richiedeva sempre Pamela. Questa sola volta ricusai di contentarlo: troppo mi premeva di adempiere al mio impegno, trovandomi ancora sette rappresentazioni nuove da dare. Sapevo bene che i miei partitanti me ne avrebbero condonate alcune per la soddisfazione di tornare a vedere quella dalla quale erano stati divertiti; ma i malvagi mi avrebbero insultato; onde preferii la gloria di confondere i miei nemici, al dolce piacere di appagare il desiderio de’ miei partigiani. Ero quasi sicuro dell’incontro della commedia che davo, la feci dunque annunziare, la pubblicai negli affissi con tutta fiducia, nè m’ingannai.

CAPITOLO X.

Libercolo dei miei avversari. — Il Vero Amico, commedia di tre atti senza maschere. — Sua buona riuscita ed analisi. — La Finta Malata, commedia. — Suo incontro. — La Moglie prudente, in tre atti senza maschere. — Alcune parole sopra questa composizione. — Suo buon successo.

La quantità delle commedie che andavo esponendo l’una dietro l’altra non dava tempo ai miei nemici di far scoppiare il loro odio contro di me. Ma nei dieci giorni di riposo durante la novena di Natale, non mancarono di farmi il bel regalo di un libercolo contenente più ingiurie che critiche. In conseguenza della caduta della mia ultima commedia si andava dicendo che il Goldoni aveva consumato tutto quanto il suo fuoco, che incominciava a declinare, e che avrebbe finito male, come pure che sarebbe stato umiliato il suo orgoglio. Mi dispiaceva quest’ultima espressione solamente. È vero che mi si poteva accusare d’imprudenza per aver contratto un impegno che poteva costarmi il sacrifizio della salute o quello della mia riputazione; ma orgoglio non ho assolutamente mai avuto, o almeno non mi sono mai accorto di averne. Non feci caso alcuno di questo libercolo, anzi sempre più mi persuasi della necessità di ristabilire sul mio teatro il vero gradimento, il brio, l’istruzione e l’antico credito.

La commedia del Vero Amico, che io esposi all’apertura del carnevale, appagò pienamente tutte quante le mie mire, e l’argomento mi fu somministrato da un aneddoto storico che trattai per altro con tutta quella delicatezza di cui era meritevole. L’eroe della commedia è Florindo che ha un amico intimo in Verona, chiamato Lelio. Egli va a ritrovarlo ad unico oggetto di godere della compagnia di lui, e resta un mese in casa sua. Lelio deve sposare Rosaura, figlia d’un uomo ricco, ma sordido, avaro; conduce dunque in casa della bella l’amico: questi s’innamora subito della medesima, e accorgesi di più, che la signorina ne è colpita al pari di lui, onde risolvesi a lasciar Verona. Beatrice, fanciulla inoltrata in età e zia di Lelio, dolente della partenza di Florindo di cui appunto sperava di far la conquista, dichiarasi a lui apertamente. Fiorindo maravigliato, non ardisce disgustare palesemente la zia