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capitolo xxii 205

vermi. La lettera di lui proveniva da Roma, nella qual città si era accasato con la vedova di un curiale. Aveva due figli: uno maschio di otto anni, ed una femmina di cinque. La moglie era morta.

Annoiatosi di un paese ove i militari non si consideravano nè eran riguardati per utili, desiderava vivamente di ravvicinarsi al fratello, e presentare al medesimo i due rampolli della famiglia Goldoni. Ben lontano io dall’esser offeso di una dimenticanza e di un silenzio di dodici anni, m’adoprai anzi subito per codesti due fanciulli che potevano aver bisogno della mia assistenza; invitai mio fratello a ritornar pure liberamente in mia casa; e scrissi senza interpor dilazione a Roma, che gli venisse fornito il danaro che poteva occorrergli; onde nel mese di marzo dell’istesso anno strinsi al seno con la più schietta soddisfazione questo fratello, stato sempre a me caro, unitamente ai due nipoti che adottai per miei propri figli. Mia madre, che era ancora in vita, ebbe un piacere stragrande di rivedere questo figlio che già più non considerava nel numero dei viventi; e mia moglie, di cui la bontà e dolcezza non si smentirono giammai, accolse quei due fanciulli come se fossero stati propri, dandosi cura della miglior loro educazione.

Circondato pertanto da tutto ciò che nel mondo avevo di più caro, e contentissimo del buon successo delle mie composizioni, ero l’uomo più felice della terra, ma estremamente stanco. Mi risentivo sempre del lavoro immenso, cui dovetti attendere per il teatro Sant’Angelo, non meno che dei versi ai quali incautamente avevo assuefatto il pubblico, costandomi i medesimi infinitamente più della prosa. Laonde le mie malinconie tornarono ad occuparmi l’animo con maggior violenza del solito. La nuova famiglia, che mi trovavo in casa, rendeva la mia salute più che mai necessaria, e la paura appunto di perderla faceva crescere il mio male, il quale procedeva da turbamenti fisici e morali. Infatti ora era un umore esaltato che riscaldava l’immaginazione, ed altre volte una sorverchia apprensione che alterava l’economia animale. Il nostro spirito ha un sì stretto vincolo col corpo, che tolta la ragione (qualità distintiva dell’anima immortale) altro non saremmo che mere macchine. Nello stato adunque in cui ero, avevo bisogno di esercizio e di distrazione; onde presi il partito di fare un piccolo viaggio, conducendo meco anche tutta la famiglia. Appena giunto a Modena, fui assalito da un male di petto: tutti erano in timore per me, ed io nulla temeva. Questo appunto è sempre stato il mio modo di vivere; molto coraggio nel pericolo, e timori ridicoli nella prosperità. Mi ero già ristabilito a maraviglia dalla malattia e convalescenza, ma non avevo tempo di divertirmi. I miei comici essendo dunque a Milano, andai ad unirmi con loro in compagnia sempre di mia moglie, di mio fratello e dei due figli. La spesa non mi sgomentava mai, poichè la mia edizione andava di bene in meglio, e il danaro mi fioccava da tutte le parti; bene è vero però che in mia casa poco si fermava. Anche a Milano era andata in scena La Sposa persiana, ed aveva avuto l’esito medesimo di Venezia; mi si ricolmava perciò di elogi, di regali e d’attenzioni: mi rimettevo sempre più in salute, e a poco a poco si dissipavano le mie malinconie; in somma conducevo una vita piena di delizie. Questa felicità per altro, questo benessere, questa pace non ebbero una lunga durata. I comici del teatro San Luca avevano acquistato un eccellente attore chiamato l’Angeleri, milanese, che aveva un fratello nella curia di Milano, e parenti stimabilissimi nella classe della borghesia.