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214 parte seconda


la morte non la spaventa; ma, dovendo morire, vorrebbe morir moglie di Terenzio. Egli le mette sottocchio tutti gli ostacoli che si oppongono al loro nodo, ed ella perciò dimanda di essere sposata da lui occultamente; ma Terenzio non potrebbe in modo alcuno far forza alla sua passione e nasconderla quando avesse sposata Creusa: onde da questo rifiuto essa trae motivo di temere quel che ha sempre sospettato, cioè, che Livia lasci trasparire la sua inclinazione per Terenzio, e che Terenzio possa restarne sedotto; egli però da sincero e affettuoso amante, rassicura della propria fedeltà. In questo istante son sorpresi da Livia, che rimanda Creusa bruscamente. La scena che segue fra Livia e Terenzio, è veramente comica; in essa il poeta si prende giuoco dell’orgoglio della dama romana nella maniera più decente ed artificiosa. Egli la pone nel maggiore impaccio, e la lascia qual uomo che ha per lei rispetto ed ammirazione..., e non ardisce dir altro; ella soffre il contrasto dell’amore e della fierezza, e termina con dire: «Sì: voglio che Terenzio sia mio, ma sempre in catene; e quando non possa pubblicamente godere la corrispondenza del cuore di lui, impedirò fin che vivo, che una rivale ne vanti il possesso. Sia l’amore, l’invidia, o l’orgoglio, che a ciò mi guidino, son donna, son Romana, ed ecco bastanti ragioni per sostenere i miei diritti».

Atto II. — Fabio l’adulatore e Lisca parasito vengono entrambi a far la loro corte a Lucano: il primo per giungere, col mezzo della protezione di lui, a qualche posto lucroso, e l’altro per mantenersi sempre il privilegio di essere ammesso alla tavola di lui. Vengo, dice l’adulatore, a tributare incenso alla vanità di un senatore romano, superbo di comparire nel Campidoglio con un numeroso seguito di fautori e di clienti; ed io vengo, ripiglia il parasito, per spartire con l’oppressore del popolo le spoglie degli oppressi. Il loro dialogo va finalmente a cadere sopra Terenzio. Egli è un uomo, al parer loro, molto felice; senza però alcun merito e ingegno: che ha copiato Menandro, e che di due commedie dell’autore greco, ne ha fatta una all’uso romano. Comparisce intanto Lucano: ecco in abbondanza elogi da tutte le parti, è chiamato il padre del popolo, la gloria del Senato, e Terenzio l’onor di Roma: in tal guisa questi maligni soggetti parton contentissimi per aver veduto sorridere dalla compiacenza uno di quei padri conscritti che tremar facevano l’universo. Lucano fa venir Creusa, e le parla qual padrone e quale amante: essa rispetta la sua catena, e chiede solo la libertà del suo cuore. Non potendo egli forzarla ad amarlo, dimanda che gli si conceda almeno la speranza: Ingannami, ei le dice, ma concedimi le tue grazie. Creusa però è abbastanza coraggiosa per gloriarsi di sincerità. In questo mentre Damone annunzia a Lucano, che il Senato lo chiama, ond’egli parte in quell’istesso istante: l’eunuco allora profitta di quel momento per ischerzare goffamente con Creusa, ma essa lo disprezza, e segue fra loro una piccola altercazione. Creusa gli dice: Sei un perfido; ed egli le risponde: E tu una Greca; lo chiama malvagio, ed egli replica. E tu una Greca, aggiunge il titolo di scellerato, ed egli sempre: E tu una Greca. Irritata pertanto Creusa da una tal pertinace ripetizione, gli domanda quello che intende dire con quella parola Greca. Questo vocabolo, risponde Damone, racchiude in sè tutto quanto il male che mai dir si possa a una creatura umana. Giunge in quel mentre Livia, comanda allo schiavo di partire, e dà a Creusa un disegno da ricamare, per farne un arazzo, severamente ordinandole di non escire di camera sino a che non sia ultimato il lavoro.