Pagina:Goldoni - Memorie, Sonzogno, 1888.djvu/26

Da Wikisource.
24 parte prima


diamo; venite a rivederci. — Quando? — Questa sera, se volete. — Se io posso. — Mia figlia ne sarà contentissima. — Ed io pure.

Esce mio padre, e ce ne andiamo: rumino tutta la giornata, faccio delle riflessioni, cangio di parere ad ogni momento. Giunge la sera: mio padre va ad un consulto, ed io sul far della notte ritorno alla porta dell’ammalata che sta bene. Entro; mi sono fatte mille convenienze, mille gentilezze: mi esibiscono rinfreschi, e non ricuso. Si cerca nella dispensa, ma non vi è più vino: bisogna andare a provvederlo ed io metto mano alla tasca. Si picchia alla porta, aprono; è il servitore di mia madre, che mi aveva visto entrare, e che conosceva quella canaglia; fu veramente un angiolo, che lo mandò: mi dice una parola all’orecchio: io ritorno in me stesso, ed esco subito.

CAPITOLO VII.

Mia partenza per Venezia. — Colpo d’occhio di questa città. — Mio collocamento in casa di un procuratore.

Ritornato in me stesso dall’acciecamento in cui mi aveva posto la fervidezza della gioventù, riguardavo con orrore il pericolo che avevo corso. Ero naturalmente allegro, ma sottoposto fino dalla mia infanzia a vapori ipocondriaci e malinconici, che tetramente offuscavano la mia mente. Assalito da un accesso violento di questa malattia letargica cercavo di distrarmi, e non trovavo mezzi. I miei comici erano partiti, nè Chiozza mi offriva più divertimento alcuno di mio gusto. La medicina non mi andava a genio; ero divenuto tristo e pensieroso, e smagrivo a colpo d’occhio. Non tardarono ad accorgersene i miei genitori, e mia madre ne tenne proposito la prima: le confidai i miei disgusti. Un giorno nel quale eravamo tutti a tavola in famiglia senz’alcuno di fuori, e senza servitori, fece cadere il discorso sul conto mio. Fuvvi un dibattimento di due ore, e mio padre assolutamente voleva che io mi dessi alla medicina. Aveva un bell’agitarmi, far minacce, brontolare, egli non dava quartiere; finalmente mia madre gli dimostra che aveva torto, ed ecco come. Il marchese Goldoni, dice ella, vuol prendersi cura di nostro figlio: se Carlo è un buon medico, il suo protettore potrà favorirlo, è vero, ma potrà dargli dei malati? Potrà egli impegnare il mondo a preferirlo a tanti altri? Potrebbe procurargli un posto di professore a Pavia: ma quanto tempo, e quanta fatica per giungervi! All’opposto, se mio figlio studiasse la legge, se fosse avvocato, un senator di Milano potrebbe fare la sua fortuna senza la minima pena, e senza la minima difficoltà. Mio padre non rispose cosa alcuna, rimase per qualche momento in silenzio; indi, vôlto verso la mia parte, mi disse barzellettando: Ameresti tu il Codice ed il Digesto di Giustiniano? — Sì, padre mio, io risposi, assai più degli aforismi d’Ippocrate. — Tua madre, soggiunse, è donna; pure mi ha presentate delle buone ragioni, e potrei aderirvi; frattanto non bisogna star senza far nulla, e seguiterai a venir meco. Eccomi tuttavia in rammarico. Mia madre prende allora vivamente le mie difese; consiglia mio padre a mandarmi a Venezia, ed a collocarmi in casa di mio zio Indric, uno dei migliori procuratori della curia della capitale, proponendosi di accompagnarmi ella stessa e di restar meco fino alla mia partenza per Pavia. Mia zia spalleggia la proposta della sorella, alzo le mani, e piango dalla gioia: mio padre vi acconsente. Anderò dunque a Venezia speditamente.